[p. 248 modifica] II, p. 335). Dalla mia teoria del piacere (vedi anche il pensiero precedente e la p. 1580-'81') risulta che infatti, stante l’amor proprio, non conviene alla felicità possibile dell’uomo se non che uno stato o di piena vita o di piena morte. O conviene ch’egli e le sue facoltà dell’animo sieno occupate da un torpore da una noncuranza attuale o abituale, che sopisca e quasi estingua ogni desiderio, ogni speranza, ogni timore, o che le dette facoltà e le dette passioni sieno distratte, esaltate, rese capaci di vivissimamente e quasi pienamente occupare, dall’attività, dall’energia della vita, dall’entusiasmo, da illusioni forti e da cose esterne che in qualche modo le realizzino. Uno stato di mezzo fra questi due è necessariamente infelicissimo, cioè il desiderio vivo, l’amor proprio ardente, senza nessun’attività, nessun pascolo alla vita e all’entusiasmo. Questo però è lo stato piú comune degli uomini. Il vecchio potrà talvolta trovarsi nel primo stato, ma non sempre. Il giovane vorrebbe sempre trovarsi nel secondo, e oggidí si trova quasi sempre nel terzo. Cosí dico proporzionatamente dell’uomo di mezza età. Dal che segue: