Parla una donna/E stateve allegramente
Questo testo è completo. |
◄ | Il denaro dei poveri | Madrine di soldati | ► |
“E stateve allegramente.„
Quante volte, nei miei spontanei contatti quotidiani col più piccolo popolo napoletano, contatti egualmente cari al mio cuore semplice, come alla mia balzante fantasia di scrittrice, io ho sognato un altro dei tanti romanzi napoletani che la vita, ahimè, troppo breve, non mi darà più tempo di scrivere: quello, cioè, dei così passionali e così profondi affetti materni e filiali, quello, cioè, del vincolo incomparabile fra una popolana napoletana e il suo figliuolo, maternità ardente e tenera che a nessun’altra rassomiglia, ricambiata da un amor filiale, che commuove per la sua intensità e per la sua fedeltà. Come chiama, mai, una madre del popolo nostro, il suo figliolo? «Figlio mio bello....» E così avrei voluto in titolare il mio romanzo, se mai lo avessi scritto. Sia bello, sia brutto, sia giovine, sia maturo, il figlio, non cangia l’appellativo materno della donna del popolo nostro: sia buono, sia cattivo, sia perverso, sia micidiale, questo figliuolo, sempre così lo chiamerà, sua madre: sia egli presso lei o lontano, sia in carcere o sotto le armi, uno solo, uno solo, è il grido materno della popolana nostra, il grido che sorge fra la gioia e fra le lacrime, il grido dì festa o di dolore, con le braccia tese, con l’anima tesa, nella parola, nella preghiera, nella lettera, il grande grido, sorto dalle viscere istesse della madre napoletana: «figlio mio bello!» Ah da mesi e, ora, cento volte, mille volte, ogni giorno, le povere stanze e le fredde soglie delle caserme, e i gradini dell’altare, hanno udito questa invocazione, ora sommessa e fremente, ora amorosa e convulsa, ora sospirosa e desolata, ora disperata, che i cuori materni, che le bocche materne hanno pronunciato, volte ai figliuoli, che eran per partire, che partivano: e i figliuoli napoletani, noncuranti di ogni altro dolore, di ogni altra tristezza, di ogni altro rammarico, solo alle madri davano conforto, fingendo di scherzare, fingendo di ridere, ma palpitando nell’anima, di pena filiale: e solo alle madri loro, questi figliuoli napoletani del popolo, tornavano per un altro momento, per un altro saluto, con un impeto infantile, come quando, piccini, si stringevano, strettamente, al petto che mai non cangia, su quel seno che sempre è quello del riposo filiale.... E promettevano, questi figliuoli partenti per la guerra, partenti per un rischio di morte, promettevano e giuravano, alla mamma loro, di scrivere, di mandare notizie, di far sapere come stavano, come vivevano, ed eran sinceri, nella promessa, tutti i figliuoli, i più giovani, i più maturi; e se il loro pallore, nell’istante della partenza, mostrava la loro emozione, il loro gaio sorriso era fatto per rassicurare la madre. Mormorava ancora, il suo appellativo di amor materno, ella, verso colui che già spariva: e giungeva a lei, come uno squillo di vita, come uno squillo di coraggio, il saluto ultimo, filiale: «Oi ma’, stateve allegramente....»
*
E avete voi letto, avete compreso dalle notizie brevi ma precise, dai racconti succinti, dagli episodi e dai nomi, sovra tutto, dai nomi, che il soldato napoletano si è battuto magnificamente? Dopo aver letto e apprezzato ogni dettaglio e ogni nome, non avete voi immaginato quella mirabile, impetuosa gaiezza, con cui il soldato napoletano si è gittata sul nemico, e quante e quante volte il suo ardore ha dovuto esser frenato dai suoi ufficiali, che gli gridavano di star quieto, di star tranquillo, di aspettare gli ordini, e il napoletano sbuffava di gioconda ira, di efficace ira, contro il nemico che aveva dirimpetto, e su cui ancora non si poteva slanciare? Giacchè questo è il nostro soldato, il nostro popolano: un superbo e cosciente istrumento di guerra. Quando è a Napoli, egli è vivace ma pigro, egli è (sprizzante d’ingegno, ma non tenace; egli è molto buono, ma disubbidiente; egli è molto simpatico, ma indisciplinato; egli è un singolare impasto di virtù e di difetti, ma le prime sono virtù e i secondi non sono che difetti. Ma se una possente ragione lo distacca dal suo paese, dal suo ambiente, dalle sue consuetudini, ecco che le sue virtù s’ingrandiscono, affermandosi e imponendosi all’ammirazione di tutti: ecco che il soldato napoletano sopporta lietamente tutti i disagi e tutte le privazioni di un esercito in piena efficienza di guerra, sui campi lontani, in alta montagna; ecco che il soldato napoletano si sveglia prima di ogni altro, è pronto alla fatica come nessun altro, non accusa stanchezza, non si lagna, non borbotta, non demoralizza gli altri: ecco che egli si offre a tutti i còmpiti ardui!, a tutti gli incarichi difficili, ovunque ci voglia genialità, astuzia e prudenza, e vi riesce alla perfezione: ecco, che egli è fraterno con tutti i suoi compagni di arme e aiuta i più fiacchi, e consola i più malinconici, e sospinge i più lenti: ecco che quella limpida sorgente inesauribile, il suo buon umore, il tradizionale buon umore napoletano si spande, intorno, in un largo cerchio di serenità, di sorriso, di riso: ecco, che nella sera cadente, dopo la giornata di travaglio pesante, nel momento del riposo, il suo canto caratteristico si eleva, come una voce di giovinezza, di sentimento, di ricordo, e attrae ognuno e prende ognuno, e vince ognuno: ecco, che nella notte che succede a un giorno di lotta furibonda, nella notte in cui si deve vegliare, perchè il nemico veglia, e prepara insidie, il canto del soldato napoletano è una beffarda sfida a coloro che tramano, nell’ombra. Buon soldato napoletano, che sai batterti all’estrema avanguardia, che sai esser devoto al tuo ufficiale, sino al sacrificio, che sai esser pietoso e amoroso al tuo commilitone, e che su tutto questo, scherzi, ridi e canti, come un fanciullo, tu che sei un uomo per il coraggio e per la devozione, come uno spensierato fanciullo, tu che sai toccare le cime dell’eroismo e, quasi quasi, non lo sai, perchè sei semplice, tu che sai combattere e morire, tu che hai cantato sino a un’ora prima della tua gloriosa morte, tu che sai combattere, e vincere e morire, noi, di lontano, ti vediamo, ti scorgiamo, in tutti i tuoi aspetti generosi e nobili, soldato nostro, soldato di questa Napoli nostra, ti scorgiamo nella mischia e nel riposo, nell’ora dell’immenso periglio e in quella del meritato riposo! E a un tratto, fra tante immagini successive, in cui piace a noi di evocarti, di lontano, sembra a noi di vederti, fermo, curvo sopra una carta, dove la tua mano traccia dei caratteri, lentamente, con attenzione. Tu scrivi, tu scrivi a mamma tua. È il «figlio bello» che scrive alla sua «cara matre....»
*
E non le lettere che noi pubblichiamo, in quella rubrica, così impressionante, non solo quelle, giungono alle nostre donne del popolo, dalle zone di guerra: ma ne giungono delle molto più ingenue, scritte a grossi caratteri puerili, fatte di poche frasi, quasi sempre le stesse, ma che contengono, per il figlio che le ha scritte, per la madre che le legge o se le fa leggere, sempre qualche cosa di suggestivo. Tal volta sono delle cartoline, ove la mano inespertissima ha confuso indirizzo proprio, indirizzo della madre, e il testo e i saluti, e il poscritto, e il secondo poscritto: per leggerla, bisogna girarla tre o quattro volte, nelle mani. Tirate fuori dalla tasca del grembiule di una lavandaia, di una serva, di una povera qualsiasi lavoratrice della vita, quante di queste cartoline, io ho lette, e, ad alta voce, le ho rilette alla madre che, già già, le sapeva a memoria. Aveva trovato il tempo, il figliuolo lontano, fra le rudi fatiche e le ore di battaglia, di mandare alla sua mamma, a Napoli, qualche notizia della propria salute, così breve breve, un piccolo dettaglio della propria vita, una domanda ansiosa di lei, dell’altro genitore, dei parenti, della innamorata, un saluto a tutti, un bacio a tutti.... E, sempre, una parola filiale, pregando la madre di non stare in pensiero per lui, spiegando alla madre che la guerra si sta vincendo, ogni giorno più, narrando, in certe curiose parole, che gli austriaci scappano sempre. Preziose cartoline, che la madre riprende subito, dopo la mia lettura, che essa conserva come cosa carissima, mentre, nei suoi occhi, vi è un velo di lacrime: ma sono lacrime di fierezza. Preziose cartoline, in cui quasi sempre, vi è l’augurio, nel saluto, dell’arrivederci presto: vi è, quasi sempre, la frase «presto ritorno» e in nove su dieci lettere, in nove su dieci cartoline, vi è lo squillante grido di coraggio: «E stateve allegramente....» Guardo io, la madre da gli occhi lucenti di pianto, e le ripeto che deve esser allegra, giacchè suo figlio glielo dice. Ripone, ella, la povera popolana, la sua cartolina, e, un poco fievolmente, sorride, al figlio bello, al figlio lontano....
Mezzo luglio 1915....