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(4345-4346-4347) | pensieri | 289 |
p. xcvi e l’autore (4346) dell’Ipparco, dialogo che va tra le opere di quest’ultimo, dice che anche al suo tempo si recitavano da’ rapsodi alle feste de’ Panatenei quinquennali i versi di Omero, con quell’ordine che, secondo lui, da Ipparco figlio di Pisistrato era stato ingiunto ai rapsodi da osservarsi nel recitarli. E durò fino agli ultimi tempi della Grecia l’uso di recitare a memoria ne’ conviti e nelle conversazioni colte degli squarci di poesia, or d’uno or d’altro autore; il che si chiamava ῥῆσιν εἰπεῖν e simili. Vedi p. 4438 e vedine il Comento del Coray a’ Caratteri di Teofrasto, e del Casaubono ad Ateneo. Possono considerarsi come una continuazione dell’antica usanza rapsodica quei tanti componimenti di genere letterario ed epidittico che i sofisti e retori a’ tempi romani, e massime nel secondo secolo, andavano declamando pubblicamente per le città della Grecia, dell’Asia, della Gallia, ora in lode di esse città, ora degl’imperatori ora degli Dei o eroi ec. del paese, or sopra argomenti di morale, di filologia nazionale ec. Vedi p. 4351.
Noi ridiamo di quell’antico modo di pubblicazione; forse quegli antichi riderebbero assai del nostro. Certo non potremo negare che quella non fosse e naturale (anzi la sola naturale) e vera pubblicazione. Noi diciamo aver pubblicato un componimento quando ne abbiam fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al piú in qualche centinaio di mani; come se quelle centinaia di lettori fossero la nazione: e la nazione veramente, il vero pubblico, il popolo, non ne sa assolutamente nulla. Pubblicare allora, era dare ed esporre al popolo, che oggi è straniero alle nostre edizioni. Come già Plato (Phaedr., p. 274, E) atque alii veteres philosophi iudicaverunt inventas litteras profuisse disciplinis, sed obfuisse discentibus, adeo ut quae inventio medicamen memoriae dicta esset, eadem non (4347) immerito noxa ejus et pernicies diceretur (Wolf, § 24, p. ci-cii), cosí non sarebbe men paradosso e forse
Leopardi. - Pensieri, VII.