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22 pensieri (3550-3551-3552)

possa parer che ve n’abbia (perocché il patimento venendo a essere perpetuo, il vivente ci si avvezza per modo insin da’ primi istanti del vivere, che pargli di non sentirlo e di non avvedersene).  (3551) Anzi questa seconda proposizione è necessaria conseguenza della prima, e quasi la medesima diversamente enunziata. Perocché dove non v’ha piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderandolo perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre. E non godendo mai né mai potendo veramente godere, resta ch’ei sempre soffra, mentre ch’ei vive, in quanto ei sente la vita: ché quando ei non la sente, non soffre; come nel sonno, nel letargo ec. Ma in questi casi ei non soffre perché la vita non gli è sensibile, e perché in certo modo ei non vive. Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’è quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di esser vivente. In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e  (3552) perciò appunto ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale, come nella mia teoria del piacere ec. (29 settembre, festa di San Michele Arcangelo, 1823).


*    Alla p. 3550. Il narrare non dev’essere al poeta epico che un pretesto, la persona di narratore non dev’essere a lui che una maschera, come al didascalico la persona d’insegnatore. Ma questo pretesto, questa maschera ei deve sempre perfettamente conservarlo, ed esattamente (quanto all’apparenza e come al di fuori) rappresentarla in modo ch’ei sembri sempre essere narratore, e non altro. E cosí fecero tutti i grandi,