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(3549-3550) | pensieri | 21 |
dere, di accender l’emulazione, di esaltare i pregi della propria nazione, de’ propri avi, degli eroi domestici ec. Tutti questi o parte di questi hanno da essere i veri e proprii fini del poeta epico, non il narrare; ma il poeta epico dee però fare in modo che apparisca il suo vero e proprio, o certo principal fine, non esser altro che il narrare. Appena merita il nome di poesia un poema il quale in verità non faccia altro che raccontare, cioè non produca altro effetto che di stuzzicare e pascere la semplice curiosità del lettore, ossia coll’intreccio bene intrigato e avviluppato, ossia con qualunque mezzo. Queste sono piuttosto novelle che poesie, per quanto l’azione raccontata potesse esser nobile, sublime, interessante ec. (di questa specie sono l’Orlando innamorato, il Ricciardetto e simili). E possono ben essere di questa natura anche i poemi tessuti o sparsi d’invenzioni capricciose e di favole ec., come i veri poemi. Anche favoleggiando (3550) sempre o quasi sempre, un poema può non far veramente altro che raccontare. Questi tali non sono poemi, perché il poeta ha veramente e principalmente per fine quel ch’ei non dee se non far vista di avere, cioè il narrare. Ma per lo contrario i poemi pieni di lunghe descrizioni, di dissertazioni e declamazioni morali, politiche ec., di sentenze, di elogi, di biasimi, di esortazioni, di dissuasioni ec. in persona del poeta ec. e di simili cose, non sono poemi epici ec., perché il poeta mostra veramente di avere per principali fini quei ch’e’ non deve se non avere senza mostrarlo (29 settembre 1823). Vedi p. 3552.
* Alla p. 2861, fine. Questa proposizione corrisponde a quell’altra da me in piú luoghi esposta, che il piacere è sempre o passato o futuro, non mai presente, e che quindi non v’ha momento alcuno di piacer vero, benché possa parere. Cosí non v’ha né vi può aver momento alcuno senza vero patimento, benché