(3450-3451-3452) |
pensieri |
395 |
rappresentazione o la lettura, non debba lasciare alcun vestigio di se; un affetto che non debba esser durabile, che durando si opponga all’effetto voluto e cercato dall’autore e dalla qualità del dramma. E quando l’eccitar questo affetto, come la compassione per gl’immeritevolmente infelici, è il principale scopo che l’autore e il dramma si propongono (come ordinariamente accade), il farlo non durevole, il distruggerlo nel suddetto modo, è contraddizione ne’ termini: (3451) principale e non durevole, principale e da distruggersi appostatamente e volutamente col dramma stesso, principale e non risultante dal totale del dramma, principale e da non dover perseverare né sino alla fine, né dopo la fine, e da non dover esser prodotto dal dramma considerato nell’intero; dovere dal dramma considerato nell’intero esser prodotto un effetto diverso, anzi contrario, a quello ch’ei si propone per iscopo principale. La naturalezza1 e la verisimiglianza è maggiore assai ne’ drammi di tristo che in quelli di lieto fine, perché cosí va il mondo: il delitto e il vizio trionfa, i buoni sono oppressi, la felicità e l’infelicità sono ambedue di chi non le merita. Ma nel mondo il felice per lo piú ha nome di buono, e viceversa. Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condotta morale de’ felici e degl’infelici qual ella è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l’odio e il disprezzo originato dal dramma verso i malvagi, benché felici e viceversa. Non dall’alterar la natura e la verità delle cose, facendo sfortunato il vizio e la virtú. (3452) È ben grande utilità morale, e che ben di rado si procura e si ottiene, e basta ben a produr l’odio e l’indignazione, il far conoscere e recar sotto gli occhi le vere qualità morali e i veri meriti de’ felici e degl’infelici. E l’odio, il disprezzo, il vi-
- ↑ Veggasi la p. 3125-3133.