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(3420-3421) | pensieri | 377 |
greci, altro verso i barbari, non accidentalmente, ma naturalmente; sulla supposta inferiorità di natura di questi a quelli; sul supposto naturale diritto ne’ greci di comandare a tutte l’altre nazioni, come per natura incapaci di governarsi da se né d’acquistare le facoltà a ciò convenienti, sulla supposta servilità non di circostanza, ma di natura ne’ barbari (cioè nei non greci), servilità creduta in essi cosí universale, che l’esser molti di essi nella propria nazione servi, era creduto irragionevole, perché niuno nella loro nazione era stimato aver dritto di comandarli, essendo tutta la nazione composta di soli servi per natura. Vedi la Repubblica d’Aristotele, ediz. del Vettori, Firenze, Giunti, 1586, libro I, p. 7, 31-32, libro III, p. 257 e le note del Vettori ai rispettivi luoghi, e Plutarco, t. II, p. 329, B ec. (12 settembre 1823). Opinione rinnovatasi presso gli spagnuoli ec. quanto agli americani indigeni, negri ec. ec.
* Alla p. 3304. Quanto nel citato pensiero ho detto dello stile di Floro, si può, e meglio, applicare a quello di Platone, riputato, sí quanto allo stile e a’ concetti, sí quanto alla dizione,1 esser (3421) quasi un poema (vedi Fabricius, Bibliotheca Graeca in Plat., § 2, edit. vet., vol. II, p. 5); e nondimeno sommo e perfetto esempio di bellissima prosa, elegantissima bensí e soavissima (non meno che gravissima: suavitate et gravitate princeps Plato: Cicerone, in Oratore), amenissima ec., ma pur verissima prosa, e tale che la meno poetica delle moderne prose francesi (e mi contento di parlare delle sole riconosciute per buone), è molto piú poetica di quella di Platone che tra le greche classiche è di tutte la piú poetica. Non altrimenti che molto piú poetiche della prosa platonica sono assaissime prose sacre e profane de’ posteriori sofisti e de’ padri greci ec., la cui moltitudine avanza forse e