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(730-731-732) | pensieri | 155 |
e per farlo sempre piú infelice e per ispegnergli ovvero intorpidirgli l’immaginazione, di cui la natura l’avrebbe dotato; ma non quanta si richiede a conoscere intimamente le passioni, gli affetti, il cuore umano e dipingerlo al vivo; oltre che, quando anche potesse conoscergli, non saprebbe dipingergli, giacché bisogna convenire che all’italiano d’oggidí manca la massima parte di quello studio ch’è d’uopo per iscriver cose, come son queste, difficilissime. Sicché l’italiano, ancorché si metta a scrivere col cuore profondamente commosso, o sullo stesso incominciare non trova piú nulla e, non sapendo che si dire, ricorre ai generali, (731) ovvero, volendo esprimere proprio quello ch’ei sente, non sa farlo e scrive come un fanciullo.
Per tutte queste ragioni dunque l’italiano non essendo oggidí capace di poesia affettuosa, ricorre e si dedica interamente alla immaginosa, non per natura o per vocazione, ma per volontà ed elezione. E appunto perciò o non vi riesce punto, o solamente coll’imitare e tener dietro agli antichi, come un fanciullo alla mamma; nel modo che (sia detto fra noi) ha fatto il Monti: il quale non è poeta, ma uno squisitissimo traduttore, se ruba ai latini o greci; se agl’italiani, come a Dante, uno avvedutissimo e finissimo rimodernatore del vecchio stile e della vecchia lingua.
Ma gl’italiani contuttociò, e contro la natura de’ tempi e della poesia, si gittano ad un genere che oggi non può essere se non o forzato o imitativo, e lo fanno perché questo riesce loro molto piú facile del sentimentale: (732) 1°, Nessuno dubita che l’imitare, a certi ingegni massimamente, che hanno pochissima o forza o abitudine ed esercizio di forza e d’impazienza e di calore ec., non sia molto piú facile che il creare. E gl’italiani d’oggidí, poetando, appresso a poco, sempre imitano, anche quando non trascrivono, come spesso fanno, e come fa l’Arici, ché