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a cantar sommamente le cose somme. Adunque cessin questi tali da tanta loro presunzione, e se per la loro naturale desidia sono oche, non vogliano l’aquila, che altamente vola, imitare» (0. Se pertanto paresse ad altri che l’ Alighieri volesse far della lingua e della poesia, come altresí del governo (*), un monopolio di pochi, concedasi almeno che cotal monopolio differisce da quello dei nostri municipali e puritani, poiché quegli lo conferiva alle aquile e questi lo assegnano alle oche.

Tal è il sublime concetto che Dante aveva della lingua nazionale. E pur questa lingua non era ancora illustrata dal Petrarca, dal Machiavelli, dall’Ariosto, dal Galilei, dal Leopardi, e però non potea attribuirsi la lode, che le fu data da un moderno francese, di essere la piú bella delle lingue vive (3). Ma per un fato singolare, a mano a mano che essa crebbe di perfezione e di splendore, ne scemò il culto e l’affetto in coloro che la parlavano e la possedevano. Sarebbe facile il provare che la declinazione del nostro essere nazionale, o vogliam dire della italianitá politica, corrispose con esatta proporzione allo scadimento della letteraria, se questa materia non volesse troppo lungo discorso. Siccome però in ogni genere di cose il progresso si deduce dal principio e dall’esito, avendo giá notato come la nazionalitá e la lingua si originassero, ricordiamo ora come risorgessero. Esse rinacquero pure ad un corpo e altresi pel magistero di un gran poeta, il quale fu secondo padre e ristoratore di entrambe. Il senso della nazionalitá e l’uso della buona lingua erano quasi morti ai tempi di Vittorio Alfieri, il quale fu il primo che richiamasse i suoi coetanei ai dogmi dell’antica scuola italica e allo studio dell’aureo secolo. E l’ufficio, che fece in universale rispetto a tutta la penisola, lo esercitò piú specialmente riguardo al nativo Piemonte, avvezzandolo civilmente a tenersi per un membro d’ Italia e letterariamente a pensare e scrivere nella sua lingua. L’opera dell’ Alfieri fu

(1) De vulg. eloq., il, 4.

(2) Vedi supra, cap. 2.

(3) Courier, Lettre a M. Renouard.