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iv. 1815 - gl’«idillii» di mosco | 25 |
lo guardasse dalle piume, e «frattanto», «ancora», «invan» sono i rimpinzamenti inutili di poeti tironi. Saffo dice:
Tramontò la luna E le Pleiadi, ed al colmo È la notte, e l’ora passa, E io soletta mi giaccio. |
Divina semplicità, che ha la sua espressione e il suo motivo nell’ultimo verso, il sentimento della solitudine nel silenzio della notte, come nota il Comparetti. Semplicità non sentita qui, e guasta da ricami e da ripieni.
Nella versione del Mosco c’è progresso.
I versi sono di buona fattura e di schietto stampo italiano, assai migliori che non è finora la sua prosa. Fenomeno già notato da parecchi scrittori italiani. Cito a esempio il Cesarotti, con la sua prosa vivace, ma impropria, e con quei versi stupendamente fabbricati.
Solo la disciplina della scuola può piegare i giovani a leggere trecentisti e cinquecentisti, a spensare per pensare, come diceva Alfieri.
Quelle prose nude o artificiate, sempre vacue, non allettano il giovane, tutto curiosità e tutto immaginazione, che se ne rivale con le sue letture secrete, romanzi, commedie e cose simili. Figurarsi un giovane abbandonato a sé, com’era Leopardi!, lui che si secca fino di Cicerone, e rassomiglia quei periodi a un’onda sonnolenta...
Il suo ideale di prosa non era Boccaccio e non Bembo, era la prosa francese, che si leggeva così volentieri, e quell’italiano corrente, nel quale avevano scritto Algarotti, e Magalotti, e Cesarotti, e Bettinelli, tutti gli spiriti forti del secolo decimottavo.
Ma, se al suo spirito era straniera la così detta prosa classica, erano al contrario familiarissimi tutti i poeti italiani, da Dante a Monti. E non è a far meraviglia che in quei primi versi giovanili si vegga già tanta copia di locuzioni e d’immagini, con tanto gusto.