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di alcuni traduttori di catullo. 137

o a quell’altro carme indistintamente; son come gli abiti da nolo.

I metri che sceglie fanno spesso a calci col sentimento del carme, somigliano alla musica di Petrella. Il carme ottavo, ad esempio, ch’è tutto pieno di sdegno e di malinconia, nella poesia del Puccini doventa tutt’altra cosa:

Lascia, Catullo, omai
Lascia di delirar,
Perduto ben che mai
Più rieda non sperar!

Tutt’al più, par di sentire un eroe di Metastasio, che si dispera in tono di cabaletta.

Il carme sugli annali di Volusio, che nell’originale è sparso di tanto sale e di tanto brio, tradotto come è in ottava rima, muta del tutto fisonomia, assume un contegno grave, solenne, quasi epico. E com’è poco felice nella scelta dei metri, e l’orecchio non gli è sempre fedele nell’armonia dei versi, così egli non cura, o piuttosto non sente, certe finezze, certe sfumature, in cui è riposta talvolta tutta la bellezza d’un carme. La divina poesia di Saffo, resa tanto mirabilmente da Catullo, perde nei versi del Puccini tutta la fragranza dell’anima. Egli traduce:

Pari ad un Dio, maggior, se lice ancora,
Mi sembra degli Dei, quegli che assiso
A te rincontro e vede e ode talora
                                        Il tuo bel riso.

Lasciamo l’andamento prosaico di tutta la strofa, e il brutto iato del terzo verso, ma il sentimento dell’originale dov’è?


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