Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/XIV
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XIV
BIBITE FERMENTATE - PRODOTTI NATURALI D'USO DOMESTICO
L’algarrobo si può dire che comparisce coi boschi, in queste regioni; e forma selve intere da sè, e si mescola anche e spessissimo con altre essenze, ed è a mio giudizio la pianta più estesa: meritando per ciò e per la sua importanza, di dar nome a una regione o zona forestale. Esso infatti si trova tanto nei boschi sui terreni emersi dal seno delle acque all’epoca dell’innalzamento di queste regioni, quanto su quelli formati dalle alluvioni dei fiumi attuali.
Il legname dell’algarrobo è ottimo per la maggior parte delle costruzioni al coperto e dei lavori di falegname, ma ha il difetto in generale di essere corto: dal suo tronco cola una resina nera che non si utilizza tra noi, ma tra gli Indiani sì: le sue frutte sono in forma di baccelli, che contengono farina dolciastra, che serve per far pane e bibite fermentate.
vi sono tre specie di algarrobo: il bianco, che dà baccelli per colore e dimensioni come i nostri fagiuoli bianchi, che danno una bibita buonissima e potrebbero dare anche farina; il nero con baccelli come i fagiuoli coll’occhio, che danno una bibita meno buona; e l’algarrobo, detto del patái, i cui baccelli, come i nostri fagiuoli bianchi, son grassi e danno molta e buonissima farina, con cui fanno pane chiamato colla lingua chicciua patái. I primi due hanno le foglie semplicemente composte, cioè una foglia formata da tante paia di foglioline lungo l’asse; e non hanno che piccole spine alle ascelle delle foglie; l’ultimo ha le foglie decomposte, cioè con le foglioline suddivise in tante paia di altre quasi microscopiche, come sarebbe nel gaggìo: egli ha spine lunghe da 10 a 15 centimetri, ma non grosse.
Per fare il patái, che non si fa che in Santiago e in Catamarca nella conca de los Pueblos di Belem, si pone l’algarroba secca e vetrigna sotto un maglio di legno duro, o di pietra, mosso con un lungo palo; l’algarroba così battuta si sfarina senza romperne i semi, che son durissimi. Poi stacciano la farina più o meno, e la mettono e la pigiano in un tegame, riscaldato previamente o al sole o al lato del fuoco: ricuoprono di rena fine la bocca del tegame ed espongono di nuovo il tutto, o al sole, o al fuoco lento e poco. In dieci minuti il patái è fatto, perchè la riscaldatura non ha altro oggetto che fare struggere il miele contenuto nella farina, sicchè questa ne resti formata come un massello, che riesce durissimo, quando il miele si sia raffreddato. Così si forman pani di quattro e sei libbre e più, che si pongono nelle bisaccie in groppa al cavallo, e che forniscono un alimento ricchissimo, benchè un po’ stucchevole; ha qualche cosa di farina di castagne. Messane poi una fetta al fuoco sulla lama del vostro coltello, ne ritraete un boccone proprio co’ fiocchi, sia per l’odore che pel sapore.
L’aloja (pronunziasi aloca alla fiorentina) è il nome spagnuolo che si dà qua alle bibite fermentate: in chicciua si chiama chicha (ciccia) e in mattacco húná; in mocovita ná-ná e nanna, in Villela tsúcqué.
Per farla, tanto nel Perù, come tra gli Indiani selvaggi, si usa masticare una porzione della sostanza e mescolarla con la massa. Tal porzione fa l’ufficio di fermento; contenendo la saliva, come sappiamo, la diastasia, che si trova pure nei cotiledoni dei semi, per la quale le sostanze amilacee si convertono in glucosio, o zucchero di uva, e quindi sono rese solubili nell’acqua e fermentanti, producendo alcool. L’Indiano ignora ciò, ma attentissimo osservatore com’è, ha scoperto l’effetto di una operazione, che è tanto nauseante ai Cristiani che la vedono fare.
Questa stessa operazione era usata nella China per la preparazione del pane, e nelle Indie Orientali per quella delle bevande spiritose. E tra noi, chi ignora l’uso delle balie e delle mamme, di biasciare la pappa prima di darne la cucchiaiata alle creature? Malgrado la inconsapevolezza di chi lo impiega, e il ridicolo e la nausea di chi lo vede, quest’uso risponde a uno scopo utilissimo, e la scienza in ciò lo ratifica.
Nei toldi si vedono spesso ciotole di legno o di coccio, dove le persone vanno a sputare i baccelli, che vanno biascicando durante il giorno. Oltre a ciò, a una cert’ora mettono donne e ragazzi a spezzarli e biasciarne, e i bambini ci si divertono agguantandone manciate con le loro manuzze paffute e cacciandosele nella bocca e sputandole e risputandole nelle ciotole. Molte volte ci si riuniscono anche gli adulti, e allora l’acconciatura dell’aloja serve di occasione di divertimento. La parte non biasciata la pestano in un mortaio fatto sempre di yuchan (giúccián), un albero di cui vi parlerò. Il tutto lo passano in un pilone fatto di un tronco solo dello stesso albero, e poi vi mescolano acqua, da fare due e tre barili di aloja per volta.
Dopo un 12 ore l’aloja è fatta, ed ha un sapore agretto e dolce, e un colore giallognolo. Quel frizzante la fa appetitosissima. Io la preferisco a qualunque bibita, compreso il vino. Prendendone in quantità inebria, ma è una sbornia che passa presto e non fa vomitare. Almeno così ho visto negli altri.
L’epoca della maturità dell’algarroba corrisponde a quella del vinal, che è meno buono, ma che serve per l’aloja. Viene dopo il chañar che dà una frutta dolciastra, rotonda, piccoletta, gialla, noccioluta, che si mangia cruda e che anche si cuoce e se ne fa un siroppo, buono al palato e medicinale, dicono quelli del campo, per la tosse e per l’asma. Il chañar finchè giovane, ha le foglie e il tronco, quasi, come il tamarindo, le rame poi, paiono di eucalitto. Poco dopo l’algarroba viene il mistol, che è il nostro giuggolo o zizzolo, ma un po’ differente del suo frutto, mescolato con farina di algarroba, si fa patái, e si conserva anche in cuoi fortemente pigiato. Contemporaneamente a queste frutte vengono, chi prima e chi dopo, tutte le altre, che nel Ciacco, dove più caldo, maturano in ottobre e dicembre (mesi di primavera e di estate), e più al sud, verso Tucuman, dal novembre al febbraio.
Col tempo che fanno durare alcune di queste frutte conservandole, la stagione pomifera, specialmente se abbondante, dura così da quattro a cinque mesi: ed è il carnevale degli Indiani.
Questi per conservare l’algarroba fanno dei capannini che pongono sopra quattro trampoli, sicchè non soffrano mancanza di ventilazione, ed anche per liberarla dalle formiche e da altri insetti. È bello vedere quei cupolini che si elevano al disopra dei toldi a imitazione dei nostri campanili. Ciascuna tolderia si compiace di ostentarne più delle altre. Nella stessa guisa conservano il vinal e alcune radici e frutte, che si possono o si debbono cucinar secche.
Quando l’aloja è pronta, che suol essere per le 11 della mattina, si riuniscono intorno al pilone di giúccian tutti gli uomini, sedendosi alla musulmana: quindi, con due o tre zucche vuote con manico, attingono il liquido e se lo passano. Frattanto conversano delle loro cose: di battaglie, di raccolte, di novità, di pettegolezzi; e se la ridono magnificamente su una avventura curiosa o sur un giuoco di parole. Durano così tre, quattro e più ore. Finito il liquido, si gettano sulla parte solida rimasta come fondata; le donne e i bambini non vi prendono parte.
Tengono in gran conto l’algarroba; un famoso cacicche generale, chiamato Granadero dai Cristiani per la sua altezza, e Chiatzútác, che vuol dire Vitellone dai Mattacchi, per la nazione e la grandezza; quando gli domandavo come va, rispondeva «Bien… yo… yo rico… yo teniendo… mucha… algarroba… yo rico.» E sono avari dell’algarroba e dell’aloja, sicchè non la cambiano che proprio straordinariamente con altra cosa, e invitano anche parcamente e a stento a beverne.
Una mattina trovai un mucchio d’una quarantina d’Indiani intorno a un giúccian di aloja: quando mi presentai, siccome mi conoscevano, tutti gridarono: Juan! Juan! (Gianni! Gianni!)… júc-qu-ás… júc-qu-ás (tabacco, tabacco)… e io: hué-ni-tdé: nichioc-lá pac (non ne ho, tra poco ne darò): allora m’invitarono a bere tra loro, ma al mio primo rifiuto non insistettero due volte e il cacicche mi disse: No, hijito… no nosotros… tománno… tu… dánno tahuáco (no, figliuolo, no… noialtri bevendo… tu dando tabacco). Eramo sulle gentilezze, un po’ all’indiana veramente, ma pure erano gentilezze. Io dunque per far loro piacere mi sforzavo a parlare in loro lingua alcune parole, e finalmente mi accomiatai con: Amecná, nu jopil nuhauet… nutpinlá pác… nichioc-lá júc-qu-ás… (addio, me ne vo a casa… tra poco tornerò… darò tabacco). E quelli tutti contenti, perchè usavo la loro lingua e avevo promesso tabacco, gridavano: Amecná… amecná… tapil… ccaelitt (addio, addio, torna presto). Tornai dopo due o tre ore con le tasche piene zeppe di tabacco trinciato, e li trovai ancora tutti li bevendo, e appena mi videro mi rammentarono la promessa, che io credevo avrebbero dimenticata in mezzo ai fumi della bibita. Glielo distribuii, e finitolo, essi persisterono a chiedermene, e allora rovesciai le tasche gridando: Namhuén, namhuén (non ne ho più) quelli soddisfatti della eloquenza della dimostrazione conclusero con un hée, hée, che vuol dire bene, bene. Ma non mi rinvitarono a bere.
Gli Indiani sono dimolto pigoloni e avari del proprio coi Cristiani; si capisce, son poveri in canna!
Mi viene in mente una cosa che vi vo’ dire, benchè fuor di luogo, se no me ne scordo. I ragazzi fino a 8 o 10 anni hanno un buzzo sproporzionato fino a doverselo stringere con una legatura all’altezza del bellico. Poi lo perdono e diventano uomini sveltissimi di pancia.
Credo opportuno di dire, che l’algarrobo forma parte della famiglia del nostro carubo (ceratonia siliqua) e i botanici lo appellano scientificamente prósopis algarrobo. È immensa l’importanza che ha nell’economia domestica dei selvaggi e degli abitanti del campo. Merita perciò attenzione. La sua chioma raggiunge dieci o più metri di diametro, ma non è densissima, sia per il numero delle foglie, sia, e più, per la forma loro tanto frastagliata: nondimeno è assai ombreggiante. La scorza è rugosissima, arieggia quella della vite.
Il vinal (prósopis ruscifolia) è un albero basso assai, ma bastante ampio di chioma; si distingue per spine lunghe 10 a 15 centimetri, grosse alla base anche più d’un centimetro, e di una puntura pericolosissima: le foglie, della grandezza di quelle d’una acacia, ma più acute e un poco ruvide, si dicono un rimedio molto efficace per la vista.
Il chañar è detto (gurliaea decorticans) scientificamente; il mistol, (zizyphus mistol).
Tutte queste frutte sono mangiate avidamente da molte bestie, e l’algarroba e il vinal costituiscono un ottimo ingrasso pei cavalli e per le vacche.
Un frutto che pur si trova silvestre, ma scarso, almeno per quanto ne ho visto io, è il susino: il sapore della frutta è devole, e tanto più grato per la mancanza di susini domestici, qua.
Durante il carnevale dell’aloja accadono frequenti risse, pugne e morti e non solo tra gli Indiani, ma anche tra i Cristiani del Ciacco.
Ora due parole sul giuccian, che è anche detto palo borracho (palo briaco); è una bambagea, che scientificamente è chiamato (chorisia insignis): potrebbe chiamarsi l’albero del cotone; ha una forma strana, che giustifica il nome volgare. Ha il tronco della forma di un coppo da olio, cioè, stretto al piede, largo a mezzo, e stretto un’altra volta alla biforcazione della chioma. Il tronco raggiunge il diametro anche di 2 m.; è bernoccoluto, ed è alto da 4 a 5 metri quando molto, ed è frequentissimo vederlo appaiato con un altro fin dalla base, e la chioma principiare con sole due rame, che poi si suddividono e formano un ampio cappello di 8, 10 e più metri di diametro; con le foglie come il nostro noce, ma un poco più piccole, e di bell’ombra.
Della scorza del tronco si fanno striscie che servono per legare; si usa pei tetti, per involgere e stringere i rocchi di tabacco e per qualunque altro lavoro analogo. Del tronco gli Indiani fanno i loro canotti tutti d’un pezzo: perciò non fanno che vuotarlo con uno strumento qualunque, essendo floscio il legno finchè fresco, e divenendo duro più del sughero, ma spugnoso come questo, quando è secco. Il canotto i Mattacchi lo chiamano anatra, in loro lingua, cioè cuó-chiác.
La specialità principale del giuccian è però il suo frutto; questo ha la forma, il colore e le dimensioni del limone. Quando è maturo, cosa che suol avvenire da novembre a gennaio secondo i luoghi, i limoni si aprono in quattro e ne sboccia fuori un piumaccio di candidissimo cotone, che a poco per volta va cadendo. Un limone sbocciato ha la grandezza di un grosso pugno; di tali limoni l’albero ne porta parecchie centinaia e tutti gli anni.
Del cotone, gli Indiani ne fanno qualche uso; tra i Cristiani nessuno, tuttavia io ho visto in Catamarca, dove sono pochi di tali alberi, biancherie fatte di tal materia e premiate all’Esposizione di Cordoba.
Nel Ciacco abbiamo un’immensa quantità di giuccian, che stanno mescolati con le piante di legno duro nei terreni di emersione se a questo cotone si troverà un’applicazione industriale, il giuccian e il ciàguar, che dà il tiglio per funi, i quali si trovano in immense estensioni e producono senza cure, rappresenteranno due articoli di gran profitto.
Un altro albero interessante per usi domestici e forse anco industriali, è il pacará (enterolobium timbouva): è un magnifico albero; uno dei più alti, dei più grossi, dei più chiomati, dei più belli ha le foglie come il nostro sorbo, ma più grandette; è una mimosa. Il frutto è della forma d’una piaccella oblunga, aggrovigliolata, color castagna scura, d’un pollice e mezzo di lunghezza, e contiene dal 12 al 15% di saponina; tal frutto s’impiega per digrassare abiti e lane.
Per finire come abbiamo cominciato, dirò che gli Indiani sono ghiottissimi dei liquori che usano i Cristiani e ne pigliano stoppe da rimanerne storditi. Simili anche in ciò ai loro non fratelli in Cristo.