Pagina:Otto mesi nel Gran Ciacco. Viaggio lungo il fiume Vermiglio di Giovanni Pelleschi.pdf/118

112 parte prima

a dissotterrare. Cotesti teschi li portai da dieci leghe al mio rancho sulla frontiera, e li misi in camera sotto il tavolino che mi serviva di scrittoio.

Una notte temporalesca, odo un rumore sulla porta aperta: la poca luce della candela di sego era sufficiente ad abbagliarmi, non potevo perciò vedere nel fondo cupissimo dell’aria un coso nero: Quien es? grido, naturalmente acciuffando il revolver li sul tavolino. Amicco… amicco… no mas, (Amico, amico e nient’altro), e si avanza un pezzo d’uomo di cacicche mattacco seguito da un compagno. Que queriendo, amigo? (che volendo, amico), gli soggiungo allora: Toba etéc (la testa del Toba) mi risponde. Io piglio un cranio e glielo porgo, aggiungendo: Toba cátcía (Toba cattivo). E allora l’Indiano afferra, quasi convulso, il teschio, con la sinistra, colla destra si mette a cacciare le dita negli occhi, nelle orecchie e nella bocca dello scheletro e poi via via nella bocca propria come succhiandole, e contemporaneamente a saltare e a gridare suoni inarticolati.

Cotesto cacicche aveva saputo di cotesti teschi, ma però come già appartenenti ai Toba loro mortali nemici, ed era venuto in una notte a proposito a celebrare la ridda.

Da cotesta volta, essendosi data la combinazione che le indiade mattacche tornavano dagli stabilimenti di zucchero della provincia di Salta, situati a un sessanta leghe più addentro di dove era io, tutti i giorni mi trovai per qualche tempo con delle cinquantine d’Indiani alla porta, che mi domandavano la testa del Toba; ed io li compiacevo coll’eterno ritornello: Toba cátcía… cátcía… e quelli a ripetere la solita storia.