Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/XIX
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XIX
MEDICINA
Può meravigliare che nel Ciacco non sieno stati trovati rimedi dai suoi selvaggi abitanti, eppure è così, dovuto in parte alla scarsezza della loro intelligenza, ma sopratutto alla loro superstizione riguardo alle malattie.
Essi credono in fatti che una malattia sia prodotta da un ahót, che è entrato dentro la persona: non si tratta dunque che di cacciarlo con una stessa maniera, quella degli scongiuri.
Ne segue, che i medici non possono essere che i loro maghi, o preti, o come si voglia dire. Questa stessa loro superstizione è del resto una conseguenza del bisogno che ogni uomo prova di liberarsi di un male presente e della ignoranza loro sul modo di raggiungerlo. Una buona dose di malizia innata nell’uomo, è il mezzo tra l’ignoranza e la superstizione.
Nondimeno essi si accorgono della mancanza di rimedi reali e della superiorità in ciò dei Cristiani, a cui hanno una grande fiducia come medicatori, mentre a sua volta la plebe cristiana ne ha molta nei suoi fattucchieri.
So di padroni di estancias che han chiamato degli Indiani a curarli.
Pertanto i bruci curano gli ammalati scongiurando gli ahót con gli urli, coi salti, col soffiare e lo sputare nella bocca del sofferente. Accompagnano poi questi scongiuri con qualche prescrizione omeopatica, come la dieta, i bagni e simili.
La loro fiducia negli scongiuri non cessa nemmeno dinanzi ai rimedi dei Cristiani.
Una volta mentre stavo a bordo incagliato per mancanza d’acqua e contornato d’Indiani, si presentò una comitiva con un Indiano sofferente che veniva a farsi curare. Mancavamo di interprete cotesto giorno, ed io, approfittando degli appunti presi, venni a capire che l’Indiano era stato morso da una vipera: «ciaschietách-kiá, rimedio per la vipera,» chiedevano.
Avevamo una piccola farmacia e ci demmo ogni premura per sanarlo con l’ammoniaca. Per noi era importantissimo uscirne bene, per acquistar prestigio e amici presso cotesti Indiani, che pochi giorni avanti ci avevano in una imboscata scaricato parecchi tiri a bruciapelo.
Nondimeno la guarigione procedeva lentissima e ci furono dei momenti nei primi tre giorni, periodo superstiziosamente critico, in cui tememmo seriamente, perchè il gonfiore della gamba dove erano le morsicature, si andava estendendo all’inguine e alla pancia, e se avesse raggiunto la regione del cuore sarebbe stata finita per il paziente.
Or bene, durante la cura, fatta come per un cavallo, e se ne avea ben donde, il malato non inghiotti che acqua per prescrizione dei suoi bruci, e poi durante la notte, quando tutto l’equipaggio stava dormendo, principiavano i medici a cantare húu húu húu... hée hée hée... hi hi hi... e poi di nuovo húu húu húu ecc. eppoi di tanto in tanto a sputacchiare e a soffiare come mantici sulla ferita e su altre parti del corpo. E duravano così ore intere.
Io che vegliavo fino a notte inoltrata, tanto per fare il mio turno di guardia, come per approfittare di alcune ore quiete da studio, mi appressavo sovente a loro, che, sulle prime tacevano, ma dopo, incoraggiati dai miei hiss, tzilatác, bene, bello, e dal mio rispetto, continuarono sempre anche in mia presenza.
Finalmente, dopo venti giorni, l’ammalato guari.
Un modo strano di curare è quello per la ferita del pesce razza, la quale è dolorosissima e produce anche la morte. Cotesta cura consiste in sovrapporre la parte offesa, che suol essere la noce del piede, sul fumo che sale dalle schiappe ardenti del palo santo che è resinosissimo, e poi nel porsi a cavalluccio sulla ferita una donna nel suo periodo lunare. Mi si è assicurato, dai Cristiani che lo hanno provato, che è un rimedio efficacissimo.
Ogni cura però ha bisogno, per avere la sua virtù, che sia diretta da uno stregone o da una strega almeno.
Non può essere stregone uno chiunque, e siccome le cure se le fanno pagare secondo la malattia e la persona, o con pelli o con animali o con viveri o con altri oggetti, così questa professione dà luogo a camorre e a ciurmerie. Inoltre, per aggiungersi prestigio, si fanno precedere dal mistero e dallo straordinario. Così, nella tolderia di Granadero gli Indiani dicono d’un giovanetto, avviato già nella carriera, che da ragazzo sparì e che riapparve dopo due anni passati sotto terra tra gli ahót, che ve lo avevano trascinato per insegnargli l’arte e inoculargli la virtù di medico e di prete.
E a proposito di ciurmerie, una volta mi trovai a mal punto. Fui a visitare il cacicche Granadero che era uscito da una lunga malattia. Portavo meco, come sempre, un calamaio tascabile e una penna. Granadero se ne accorse e mi chiese che erano. Io credendo di fargli piacere, armo penna e calamaio e fo l’atto di scrivere, ma in quel momento vedo che Granadero si pone torvo e minaccioso... I suoi medici lo avevano appunto guarito poco fa dell’ahót, che lo aveva tormentato tanto tempo, estraendo dal suo corpo penne e lapis, sotto la cui forma interamente cristiana dicevano che lo aveva stregato l’ahót.
Una abilità incontestabile sembra che l’abbiano le donne come levatrici. Colgono con singolare abilità il punto del puerperio, e allora sollevano e sorreggono la paziente e la scuotono accompagnando l’atto coi soliti scongiuri fino alla fine.
Ma per assistere a uno spettacolo interessante, bisogna vedere una cura in mezzo d’una tolderia. Una notte che stavo accampato presso una tribù, fui assalito dalla curiosità all’udire un gran rumore di voci e il rimbombo di grandi percosse sulla terra. Approfittando della buona relazione che vi avevo, mi azzardai ad andare a vedere. Nel mezzo della tolderia, in una specie di piazza vidi un cerchio di figure negre rischiarate qua e là dal bagliore delle fuocate: erano le cine e gli uomini accoccolati silenziosi che fumavano. Nel mezzo del cerchio andavano correndo su e giù per uno spazio di circa otto metri quattro uomini robusti, con piume di struzzo e sonagli alle noci dei piedi, ai polsi, alla testa e alla cintola: nelle mani, sempre alzate e gesticolanti, tenevano uno zucchetto mezzo ripieno di grani, che agitati contribuivano allo strepito. Correvano cantando, e urlando; ansavano, e sudavano; allargando le gambe, battevano i piedi fortemente con tutta la pianta, e allora alzavano spropositatamente e disperatamente la voce, tenendo alte le braccia, china la testa e curvo il corpo. Alternatamente due di essi arrestavansi, si accoccolavano e, dimenando rapidamente la testa a destra a sinistra, in basso e in alto, mugolavano, soffiavano e sputacchiavano sul dorso, sulle gambe, sul capo, nel muso di due malati posti a sedere nel mezzo di loro.
I due malati soffrivano atrocemente per gli ahót incarnati in dolori reumatici: gli stregoni tentavano liberarneli con quella ridda infernale. Non raggiungeranno l’intento finchè dessi non arrivino con la loro corsa sfrenata e i loro colpi a stancare e a intimorire gli ahót, che malignamente ballano nello stesso momento la medesima ridda nello stesso punto sotto terra, e a intercettare a questi col loro strepito la comunicazione con gli ahót della infermità. Chi più salta, urla e batte i piedi è più bravo medico.
Il pubblico all’intorno stava per dare onore e maggiore virtù alla cura, non senza timore che l’ahót uscendo dal corpo dei pazienti si introduca in alcuno degli spettatori.
Cotesta scena mi convinse che tra gli Indiani i medici si guadagnano il pane proprio col sudore di... tutto il corpo; che anche tra loro, i ciurmatori a forza di ingannare gli altri arrivano a ingannare anche sè stessi; e che la ciurma era veramente persuasa della verità e della efficacia degli scongiuri.
E stavo per sorridere di sprezzo e di compassione, quando mi rammentai dei ciarlatani, dell’acqua benedetta, del diavolo, degli esorcismi e della plebe alta e bassa tra noi: e il sorriso mi morì sulle labbra.