Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/VI
Questo testo è completo. |
◄ | Parte prima - V | Parte prima - VII | ► |
VI
INCONTRO CON GLI INDIANI TOBA
Sentite, son proprio belli di forme quegli uomini! Quasi tutti alti e complessi da farne un uomo e mezzo dei nostri; e poi una cert’aria di fierezza che piace. Nè è brutta la faccia loro, ma vi sono di quelle che su un corpo vestito alla moda desterebbero l’ambizione delle sentimentali e delle voluttuose. A volte sono anche insolenti e provocanti. Quel punto bianco da noi veduto era il ladino (interprete), vestito con pantaloncini di tela e casacca alla militare coi suoi bravi bottoni di similoro; il brulicare dei punti neri era il muoversi degli Indiani. In cotesta circostanza, dopo alcun cambio di gentilezze, sbarcammo quattro sul greto tra loro, per acquistar cuoi e gingilli. Vi era tra essi un bel giovanotto con due occhi indimenticabili per forza e ardire, il quale aveva un cuoio di tigre con le granfie intatte; volemmo comprarlo, ma non ci si combinò, e al fine delle trattative il giovanotto, simulando l’atto del tigre, cacciava le granfie sul viso di un nostro uomo; noi sorridemmo per convenienza, ma i suoi compagni ridevano sgangheratamente e maliziosamente e tendevano a farci ressa d’intorno. Io pensava alle spalle, perchè, senz’essere stato nemmeno caporale, mi è sempre parso necessario che nella guerra prima di tutto bisogna pensare ad assicurarsi la ritirata. Il giuoco principiava a durar troppo e benchè fosse prossimo il vaporino fu bene ritirarci. Non vi erano donne, e ragazzi pochi. Facendo un passo indietro, quella casacca militare era un avanzo della famosa guerra del Paraguay e su quei bottoni si sarebbe potuto vedere i distintivi di quattro nazioni e di non so quante diecine di corpi delle diverse armi. E facendo oramai anche un altro passo indietro, ritorniamo alla fascia o benda che distingue i Toba e diamo una mezza occhiata istorica. Secondo gli istoriografi del Perù, dove tutti sappiamo che fu trovato dagli Spagnuoli un Impero fiorente e civile, che, se io fossi in grado di compararlo, lo troverei corrispondere allo stadio del periodo delle leggi agrarie e dei governi pedagogici delle nostre società istoriche primitive. Gli Inca, o casta regnante di cotesto Impero, introdussero l’uso di bende, di cui il colore e la sostanza e le dimensioni graduavano la importanza e i privilegi degli individui e dei popoli; ed anzi ci fan sapere che l’Inca capa, cioè il solo Inca, ossia l’imperatore, ne portava una d’oro massiccio, alta e grossa un dito.
Ora tal uso deve considerarsi come preesistente tra alcuni, o almeno i primi, dei popoli dell’Impero, come lo abbiamo anche qui nel Ciacco, e attribuire agli Inca solamente il regolamento di cotesto uso, conformi in questo al loro sistema sempre di dar regole a tutto e a tutti.
Questa conformità di usi tra popoli di là della Cordigliera, sul Pacifico e alla distanza di migliaia di chilometri, ci porge un criterio etnologico di queste stirpi. E se avrò tempo, e se l’ospitalità del giornale e la benevolenza dei lettori non mi venissero a mancare, spererei di citare altre circostanze che ci servano come criterii pel medesimo oggetto.
Quegli Indiani che abbiamo lasciato ci avevano venduto galline. Il giorno dopo ricomparvero più numerosi e con più galline, che potete figurarvi con quale avidità comprassimo. Il giorno era divenuto freddo e piovigginoso e così cotesta gente da nuda che era ieri, venne oggi coperta, il maggior numero, di cuoi. Era pittoresco vederli sulla spiaggia disposti in gruppi, che non mancavano di un certo ordine in mezzo all’apparente a volontà, seduti alla musulmana, la loro lancia confitta ai piedi, l’arco e le frecce al fianco, la mazza munita di grossa testa, alla vita raccomandata a una funicella o a una fascia, le borse di maglia a tracolla piene di pesci, di topiconigli o conigli-topi, di frutte del campo, di gingilli e di tutto quello che ricevessero o raccogliessero. Era veramente strano vederli accendere i loro fuochi, arrostire i loro cibi, divorarseli con gusto e poi entrare nel fiume e, curvo il corpo e la testa, colla mano dritta attingere e gettarsi in bocca l’acqua con una esattezza maravigliosa. Non so, ma a me mi parevano cotesti Indiani tanti Gesù col Battista, come li dipingono, in mezzo del Giordano con una canna in mano e un cuoio alla cintola.
Sentendo che accendono i fuochi così in quattro e quattr’otto, vi verrà voglia di sapere come fanno. Prendono due palini di cilca o altro alberello, come questo resinoso e poroso; ne aguzzano la punta a uno e colle due mani lo frullano con rapidità sopra l’altro posto a giacere. Va così cadendo all’intorno, dal buco che si va formando, una polverina sottile e scura come quella del caffè, la quale pel calore dovuto alla rapida frizione e perchè soffice si accende come un sigaro o una segatura; allora il fuoco è fatto: ci mettono sopra materie secche e sottili facilmente infiammabili, ci soffiano ed hanno la fiamma e poi tutto il fuoco che vogliono.
Ma donne non se ne vedevano! La vista al principio di quella Indianotta bellina, ci aveva messo indosso una voglia santissima di arrivare a vederne dell’altre. Non vi scandalizzi il nostro desiderio. Era proprio platonico in molti e in alcuni lo era anche intelligentemente curioso.
Per due o tre giorni assistemmo a una scena interessante. Cotesti Toba venivano sempre ingrossando; giunti noi presso al loro tolderia, che rimaneva indentro della riva del fiume un chilometro o poco più, venne a visitarci il cacicche generale con altri cacicchi e con numerosa indiada (moltitudine d’Indiani): le donne stavano a parte in distanza, ma a gruppi, da non distinguerle. Approdati alla ripa si avvicina il cacicche col ladino e ci fa un’arringa.
Urlava che pareva un disperato e spesso si batteva le mani nelle coscie e allora gridava anche più forte; le sillabe sembravano molto staccate, cosicchè pareva monosillabico il suo linguaggio: cosa che non è affatto, perchè tale espressione dipende dal bisogno di non sbagliare una parola con altra differente molte volte per una sfumatura di suono. Ripeteva le stesse cose con frasi differenti, sicchè fece un discorso lungo con poco costrutto. Quest’uso sembra comune anche agli altri Indiani, o almeno ai Pampa, stando a quanto ne scrive il colonnello Mansilla nella sua Spedizione ai Ranchéli.
Ci disse che li presso era la sua dimora, che egli e i suoi erano e volevano essere amici dei Cristiani, e ci invitava a passare a salutarlo.
Gli rispondemmo che allora non potevamo visitarlo, che anche noi eravamo amici, che non temessero di noi, che anzi la nostra amicizia avrebbe loro fruttato panni da vestirsi e cose buone da mangiare. Il cacicche generale era alto, vecchio, ma robusto, coi capelli bianchi (cosa rara) e corti; al suo lato aveva un Indiano con una faccia simpatica che era un piacere, il quale trasmetteva i suoi ordini e dava anche consigli al suo capo. Ci credete? mi parevano una coppia di quei contadini, che ne abbiamo tanti tra noi, galantuomini e agiati e abbrustoliti dal sole sopra il lavoro. Passammo alla distribuzione di tabacco e farina di mandioca alla ciurma, e dello stesso, con più alcuni oggetti, ai cacicchi. Ci voleva coraggio per noi disfarci delle cose da mangiare! Ma comprammo galline. Quel consigliere del cacicche sapemmo essere il figlio di Colompotop, cacicche famoso per la fedeltà e i servizi prestati agli Argentini nella guerra della indipendenza. Che faccia onesta!
Al ritirare i piatti con cui avevamo distribuito le razioni agli Indiani, se ne trovò mancante uno. Ne fu fatto lamento al cacicche, il quale immediatamente richiamò ad alte grida i compagni, che andavano ritirandosi, e sembrava rimproverarli, al tono della voce. Essi ritornarono, ma il piatto no.
Tra cotesti Indiani vi sono molti Cristiani banditi scappati da Santiago, da Corrientes e dal Paraguay; ma si riconoscono male se non si arguisce dalla barba; gente, che già non aveva che poche goccie di sangue bianco e pochi puntolini di lineamenti della stirpe europea, si confondono ancor di più in abito quasi adamitico prima del peccato, e dopo una vita di anni all’indiana. Pure, un giovane che fu rubato da bambino, conservava il capello castagno e dalla faccia non vi era luogo a dubitarne. Lo chiamammo, venne e fece l’ebete, ma invece spiava. Quella premura che mi destava anticipatamente la perdei ben presto, e con le diverse volte che tornai a vederlo si convertì in una ripugnanza che la sento ancora. E poi si dice che il sangue tira! — Un altro Cristiano era cacicche; era un tal Vincenzino, già maggiordomo in una estancia di Santiago dove era ben conosciuto. Bell’uomo, alto, asciutto, barba e fedine corte brizzolate: pareva un diplomatico. Aveva lasciato indietro gl’Indiani da lui dipendenti che venivano a raggiungere gli altri di lì. Ci importunava assai questo accumularsi di tante indiade! Anche egli parlava pochissimo, e faceva le viste di non sapersi esprimere in castigliano: era arte questa per non mettere in diffidenza gli Indiani sospettosissimi, i quali proibiscono ai Cristiani indianizzati di parlare in una lingua dei loro nemici e che essi non intendono, sicchè cotesti Cristiani stanno muti e fermi come statue. A Vincenzino demmo assai tabacco, ed egli lo distribui tutto in parti eguali tra gli Indiani. È questo l’uso generale la cui osservanza è motivo di affetti e di odii che decidono della fortuna dei cacicchi.
Non so se fu fortuna o disgrazia, ma il giorno dopo non potemmo avvicinarci alla riva dove eransi radunati gli stessi Indiani, in numero assai maggiore ed avevano aspettato, benchè piovesse, fino alle undici, ora in cui in tutto il Ciacco ho visto che costumano andare a mangiare. Noi eravamo rimasti arrenati alla sponda opposta. Se ne andarono sornioni e cupi, e la sera li udimmo passare a poca distanza, gettando alte grida, segno di combattimento. Non li rivedemmo che dopo varii giorni, quando tentarono di ammazzarci.
Passammo molti giorni senza vedere anima viva; era una disperazione! Finalmente una bella mattina ecco ci si presenta su le due rive un nuvolo d’Indiani. Eravamo sulla frontiera dei Toba e dei Mattacchi, ove per motivi di guerra, vi erano riunite diverse nazioni indiane.
Fu li che trovammo Faustino, che doveva riempirci tanto la vita e che doveva morire tanto miseramente e per causa nostra! Fu una festa per noi. Ci pareva già di essere in casa. Si sapeva che i Mattacchi non sono nemici dei Cristiani e benchè vi fossero altre nazioni già non ne diffidavamo. Faustino ci disse che avevano combattuto poc’anzi e che ora avevano celebrato la pace. Ciascuna nazione indiana ha il proprio territorio e si batte per un palmo di terra come noi: ed anche tra le tribù d’una medesima nazione è assegnata la rispettiva zona, che non possono oltrepassare senza dar motivo a guerre. Queste guerre sono frequentissime per i motivi accennati e per lo spirito di predare che li domina, per il quale tutte le volte in cui sanno, che una tribù si è arricchita d’un modo o d’un altro di animali e di oggetti, cercano con una sorpresa di spogliarnela. Ne conseguono morti e feriti e prigionieri, che son causa di guerre ulteriori, che se le fanno senza dichiararsele; peraltro hanno reciprocamente molte spie.
La fortuna da molto tempo favorisce i Toba, i quali occupano i terreni migliori, cioè quelli in riva al Paranà e al Paraguay, per un sessanta leghe dentro terra e per centinaia lungo i detti fiumi, e che con il commercio clandestino con Corrientes e la Repubblica del Paraguay si sono muniti di alcune armi da fuoco. Oltrechè, per essere i più lontani dal cerchio, che si va sempre più stringendo, della frontiera cristiana, ricevono il notevole contingente dei banditi, di cui ho detto sopra. È così che i Villela e i Ciulupi si sono mescolati con essi, e che lo stesso van facendo i Mocoviti, che vivevano al Sud-Ovest in contatto della frontiera di Santa Fè e di Santiago, e che inoltre hanno molto consimile la lingua, in cui ho trovato moltissime parole identiche. Lo stesso va accadendo ai Mattacchi, che toccano all’Ovest la frontiera di Salta e all’Est quella dei Toba, cosicchè stretti da due nemici si sono alleati coi Toba quelli più all’Est (e noi eravamo tra costoro) e con i Cristiani quelli all’Ovest, e si combattono tra di loro. Nondimeno conservano ancora la lingua comune di cui sono gelosissimi, benchè però la parlino rispettivamente con alcune differenze di dialetto. Così, per esempio, i Mattacchi dell’Est usano quasi sempre il chiá e il tzá, dove quelli dell’Ovest usano il ciá, benchè poi anche in una medesima tribù usino senza difficoltà qualunque delle dette dizioni: e così del chió, tzó e ció. Per esempio: gamma si dice tzonác, chionác e cionác indistintamente.
Ho detto i Mattacchi gelosissimi della lor lingua, o guardate. In quasi tutti gli idiomi indiani sono stati accettati gli animali nuovi introdotti dagli Spagnuoli, con i nomi castigliani pronunziati secondo l’attitudine delle gole e la indole del linguaggio degli Indiani.
I Mattacchi invece hanno cercato se tra gli animali indigeni vi fossero dei simili, e lo stesso si dica degli altri oggetti, e se ve ne erano, hanno applicato ai nuovi i loro nomi con una particella modificativa, d’uso anche essa della lingua. Ed hanno avuto tatto in cotesta applicazione: così la pecora l’hanno chiamata tzonatác, tzonác, volendo dire gamma; il bove chiúuassetác, chiúuassét, volendo dire cervo; il cavallo jélalác, jelác, volendo dire tapiro o anta. A proposito di quest’ultima parola, per esempio, voi saprete che migliaia d’anni fa i Greci, volendo appellare un pachiderma simile al tapiro, lo chiamarono cavallo di fiume cioè, ippopotamo, da ippos cavallo e potamos fiume. O vedete dunque come i tanto disprezzati Pelli-rosse hanno saputo combinarsi in un medesimo giudizio collo splendido Genio Greco! Mi piace farvi osservare che il tac, il cui valore modificativo ve lo darò più in qua, starebbe meglio scritto con la jóta castigliana o con la ch tedesca: e così faremo, e la noteremo quando dirò qualche cosa di questa lingua. Per mio amor proprio vo’ dirvi che mi è costato assai scoprire pel primo la relazione tra le nuove e le vecchie parole, e che quando ne trovavo una, provavo nell’animo una vera compiacenza; e così per le differenze di pronunzia.