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capitolo undecimo 499

fesa all’offensore medesimo, e far della punizione un sacrifizio volontario! E si veda come la verità strascini qualche volta verso di sè anche chi le volge risolutamente le spalle, e lo sforzi ad avvicinarsele, se non a riconoscerla intera qual è. Calvino medesimo, interpretando quel luogo di san Paolo: «Do compimento nella mia carne a ciò che rimane de’ patimenti di Cristo1; dopo aver pronunziato che «ciò non si riferisce a espiazione nè a soddisfazione di sorte veruna, ma a que’ patimenti coi quali conviene che i membri di Cristo, cioè i fedeli, siano provati, finchè rimangono nella carne,» spiega così questo pensiero: «Dice (san Paolo) che ciò che rimane de’ patimenti di Cristo, è il patire che fa di continuo ne suoi membri, dopo aver patito una volta in sè stesso. Di tanto onore Cristo ci fa degni, da riguardar come suoi i nostri patimenti2

È Cristo che patisce ne’ suoi membri; e questi patimenti rimangono sterili, e non hanno alcuna virtù d’espiare! Cristo si degna di riguardarli come suoi; e il Padre ne rigetta (offerta, come ingiuriosa a Cristo! ed è un’esecrabile bestemmia il dire che, per questa e per questa sola ineffabile degnazione, possono essere uniti co’ suoi, e partecipar così del loro merito infinito!

Del rimanente, anche quest’argomento de’ novatori contro la dottrina cattolica non avrebbe forza che contro la loro, se n’avesse veruna. Infatti, per mantenere intero e illibato a Cristo l’onere che gli appartiene3, dissero forse che la soddisfazione offerta da Lui alla giustizia divina, per i peccati, s’applichi da sè a tutti i peccatori? Non già; ma ai soli giustificati, e giustificati per la loro fede nella promessa. E, cosa strana! non avvertirono mai, in dispute così lunghe, e in tanta ripetizione dello stesso argomento, che il credere è un atto umano, nè più nè meno dell’operare, e che, col farne una condizione riguardo all’effetto, facevano anch’essi dipendere, per una parte, dall’uomo, cioè da ogni uomo in particolare, l’esser quella soddisfazione applicata a lui: che era la sola cosa in questione; giacchè l’efficacia intrinseca, la perfezione, la pienezza, la sovrabbondanza di essa non fu mai messa in questione nella Chiesa; per l’insegnamento della quale, n’avevano, di certo, avuta cognizione essi medesimi, prima di trovarla nelle Scritture. Quella condizione, dico, rapirebbe davvero l’onore a Cristo, se l’onor di Cristo dovesse consistere, com’essi pretesero, nel non lasciar nulla a fare all’uomo, al quale ha dato di poter tutto in Lui4. La Chiesa, lontana del pari e dall’insegnare una cosa simile, e dall’attribuire all’uomo alcun onore che abbia principio da lui, riconosce da Cristo ugualmente e la fede e il valore dell’opere; e lo glorifica e lo benedice d’ aver, col suo onnipotente sacrifizio, rinnovato tutto l’uomo, e fatto che, siccome tutte le facoltà di questo avevano potuto servire alla disubbidienza e alla perdizione, così potessero tutte diventare istrumento di riparazione e di merito.



  1. Adimpleo ea, quæ desunt passionum Christi, in carne mea. Ad Coloss. 1, 24.
  2. Dicit ergo (Paulus) hoc restare passionum Christi, quod in seipso semel passus, quotidie in membris suis patitur. Eo nos honore dignatur Christus, ut nostras afflictiones suas reputet ac ducat. Instit. III, V, 4.
  3. ... ut integer et illibatus suus honor Christo servetur. Ibid. IV, 27.
  4. Omnia possum in eo qui me confortat. Ad Philip. IV, 13.