Opere minori (Ariosto)/Rime varie/Canzone II
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CANZONE SECONDA.1
Anima eletta, che nel mondo folle
E pien d’error, sì saggiamente quelle
Candide membra belle
Reggi, che ben l’alto disegno adempi
5Del Re degli elementi e delle stelle;
Che sì leggiadramente ornar ti volle
Perchè ogni donna molle
E facile a piegar nelli vizî empi,
Potesse aver da te lucidi esempi
10Che, fra regal delizie in verde etade,
A questo d’ogni mal secolo infetto,
Giunta esser può d’un nodo saldo e stretto
Con somma castità somma beltade:
Dalle sante contrade,
15Ove si vien per grazia e per virtute,
Il tuo fedel salute
Ti manda, il tuo fedel caro consorte,
Che ti levò di braccio iniqua morte.
Iniqua a te, che quel tanto quïeto,
20Giocondo e, al tuo parer, felice tanto
Stato, in travaglio e in pianto
T’ha sottosopra ed in miseria vôlto:
A me giusta e benigna, se non quanto
L’udirmi il suon di tue querele drieto
25Mi potría far non lieto,
Se ad ogni affetto rio non fosse tolto
Salir qui dove è tutto il ben raccolto:
Del qual sentendo tu di mille parti
L’una, già spento il tuo dolor sarebbe;
30Ch’amando me (come so ch’ami), debbe
Il mio più che ’l tuo gaudio rallegrarti:
Tanto più ch’al ritrarti
Salva dalle mondane aspre fortune,
Sei certa che comune
35L’hai da fruir meco in perpetua gioja,
Sciolta d’ogni timor che più si môja.
Segui pur, senza volgerti, la via
Che tenuto hai sin qui sì drittamente;
Che al cielo e alle contente
40Anime, altra non è che meglio torni.
Di me t’incresca, ma non altrimente
Che, s’io vivessi ancor, t’incresceria
D’una partita mia
Che tu avessi a seguir fra pochi giorni:
45E se qualche e qualch’anno anco soggiorni
Col tuo mortale a patir caldo e verno,
Lo dêi stimar per un momento breve,
Verso quest’altro, che mai non riceve
Nè termine nè fin, viver eterno.
50Volga fortuna il perno
Alla sua rôta in che i mortali aggira:
Tu quel che acquisti mira,
Dalla tua via non declinando i passi;
E quel che a perder hai, se tu la lassi.
55Non abbia forza il ritrovar di spine
E di sassi impedito il stretto calle
Al santo monte per cui al ciel tu poggi,
Sì ch’all’infida o mal sicura valle
Che ti rimane a dietro, il piè decline:
60Le piagge e le vicine
Ombre soavi d’alberi e di poggi
Non t’allettino sì, che tu v’alloggi.
Chè, se noja e fatica fra gli sterpi
Senti al salir della poco erta roccia,
65Non v’hai da temer altro che ti noccia,
Se forse il fragil vel non vi discerpi:2
Ma velenosi serpi
Delle verdi, vermiglie e bianche e azzurre
Campagne, per condurre
70A crudel morte con insidïosi
Morsi, tra’ fiori e l’erba stanno ascosi.
La nera gonna, il mesto e scuro velo,
Il letto vedovil, l’esserti priva
Di dolci risi, e schiva
75Fatta di giuochi e d’ogni lieta vista,
Non ti spiacciano sì che ancor captiva
Vada del mondo, e ’l fervor torni in gelo,
C’hai di salire al cielo,
Sì che fermar ti veggia pigra e trista:
80Chè questo abito incolto ora t’acquista,
Con questa noja e questo breve danno,
Tesor che d’aver dubbio che t’involi
Tempo, quantunque in tanta fretta voli,
Unqua non hai, nè di fortuna inganno.
85O misero chi un anno
Di falsi gaudî, o quattro o sei, più prezza
Che l’eterna allegrezza,
Vera e stabil, che mai speranza o tema
Od altro affetto non accresce o scema!
90Questo non dico già perchè d’alcuno
Freno ai desiri in te bisogno creda;
Chè da nuov’altra teda
So con quant’odio e quant’orror ti scosti:
Ma dicol perchè godo che proceda
95Come conviensi, e com’è più opportuno
Per salir qui, ciascuno
Tuo passo, e che tu sappia quanto costi
Il meritarci i ricchi premî posti.
Non godo men, che agl’ineffabil pregî
100Che avrai qua su, veggio ch’in terra ancora
Arrogi un ornamento che più onora
Che l’oro e l’ostro e li gemmati fregi.
Le pompe e i culti regî,
Sì riverir non ti faranno, come
105Di costanza il bel nome,
E fede e castità; tanto più caro,
Quanto esser suol più in bella donna raro.
Questo, più onor che scender dall’augusta
Stirpe d’antichi Ottoni, estimar dêi:
110Di ciò più illustre sei,
Che d’esser de’ sublimi, incliti e santi
Filippi nata, ed Ami ed Amidei,
Che fra l’arme d’Italia e la robusta,
Spesso a’ vicini ingiusta,
115Feroce Gallia, hanno tant’anni e tanti
Tenuti sotto il lor giogo costanti
Con gli Allobrogi i popoli dell’Alpe;3
E di lor nomi le contrade piene
Dal Nilo al Boristene,
120E dall’estremo Idaspe al mar di Calpe.
Di più gaudio ti palpe4
Questa tua propria e vera laude il côre,
Che di veder al fiore
De’ gigli d’oro e al santo regno assunto
125Chi di sangue e d’amor ti sia congiunto.
Questo sopra ogni lume in te risplende,
Se ben quel tempo che sì ratto corse,
Tenesti di Nemorse
Meco scettro ducal di là da’ monti;
130Se ben tua bella mano il freno torse
Al paese gentil che Appennin fende,
E l’Alpe e il mar difende.5
Nè tanto val che a questo pregio monti,
Che ’l sacro onor dell’erudite fronti,
135Quel tosco, e ’n terra e ’n cielo amato, Lauro,6
Sôcer ti fu, le cui Mediche fronde
Spesso alle piaghe, donde
Italia morì poi, furon ristauro;
Che fece all’Indo e al Mauro
140Sentir l’odor de’ suoi rami soavi;
Onde pendean le chiavi
Che tenean chiuso il tempio delle guerre,
Che poi fu aperto, e non è più chi ’l serre.7
Non poca gloria è che cognata e figlia
145Il Leon beatissimo8 ti dica,
Che fa l’Asia e l’antica
Babilonia tremar sempre che rugge;
E che già l’Afro in Etïopia aprica
Col gregge e con la pallida famiglia
150Di passar si consiglia;
E forse Arabia e tutto Egitto fugge
Verso ove il Nilo al gran cader remugge.9
Ma da corone e manti e scettri e seggi,
Per stretta affinità, luce non hai
155Da sperar che li rai
Del chiaro sol di tue virtù pareggi:
Sol perchè non vaneggi
Dietro al desir, che come serpe annoda,
Ti guadagni la loda
160Che ’l padre e gli avi e i tuoi maggiori invitti
Si guadagnâr con l’arme ai gran conflitti.
Quel cortese signor che onora e illustra
Bibiena,10 e innalza in terra e in ciel la fama;
165Se come fin che là giù m’ebbe appresso,
Mi amò quanto sè stesso,
Così lontano e nudo spirto mi ama;
S’ancora intende e brama
Soddisfare a’ miei prieghi, come suole;
170Queste fide parole
A Filiberta mia scriva e rapporti,
E prieghi per mio amor che si conforti.
Note
- ↑ Scrisse il poeta questa bellissima Canzone a Filiberta di Savoia, zia di Francesco I re di Francia, in occasione della morte del suo consorte Giuliano de’ Medici, duca di Nemours, fratello di Leone X; la quale, comecchè giovane e bella, si diede nondimeno a vita ritirata e religiosa in un monastero da essa edificato. Il poeta fa qui parlare il marito alla vedova. — (Molini.)
- ↑ Vi laceri. Così pur Dante «Perchè mi scerpi?» in Inf., XIII, 35.
- ↑ Parla dell’antichità e potenza della casa di Savoja, difesa e speranza antica d’Italia.
- ↑ Figuratamente: ti carezzi o lusinghi.
- ↑ Intendasi la Toscana.
- ↑ Lorenzo il Magnifico, padre di Giuliano. — (Molini.)
- ↑ Di ciò vedasi il Guicciardini al principio del libro primo. Gli odierni lettori poi sanno, che niun altro più caldo apologista e lodatore ebbe il Magnifico in verun tempo, di quel che sia stato ai nostri giorni, nelle Speranze d’Italia, Cesare Balbo.
- ↑ Leone X. — (Molini.)
- ↑ Questa allusione ci scopre l’anno in cui la Canzone fu scritta, cioè nel 1518; quando cioè papa Leone, come scrive il Muratori, «affinchè il sultano Selim non trovasse sprovedute le contrade cristiane, più che mai si diede ad incitare i monarchi battezzati ad una lega, non solamente per fargli fronte occorrendo, ma anche per invadere preventivamente da più parte gli stati suoi.» Ann. d’It.
- ↑ Il cardinale Bernardo Dovizio da Bibbiena, gran fautore della casa Medici e amico dell’autore. — (Molini.)