Opere minori (Ariosto)/Poesie attribuite/Canzone VI

Canzone VI

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Poesie attribuite - Canzone V Poesie attribuite - Sonetto I
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VI.1


     Deh chi sent’io, mie dolci rive amiche,
Che pur di sen vi svelle
Mio bel Genebro, e ’n quelle
Altre il ripon di voi tanto nemiche,

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5E di voi meno apriche?
Anzi più; ch’or da voi
Pur vôlti il ciel là tutti i lumi suoi?
     Come piange Arno, e corre
Oltra l’usato tempestoso e ’nsano,
10Sol perchè a mano a mano
Il bel Genebro suo si sente tôrre;
Così ride, e pian piano
Or vassene, e più quêta
E più lieta che mai la bella Sona,
15Che di lui s’incorona e per lui spera
Eterna primavera.
     Onde pur, lasso! al faticato fianco
Arrò più qualche posa?
La dolce ombra amorosa
20Del mio Genebro altero or ne vien manco:
Man rapace invidiosa
Svéglielo de’ nostr’orti,
E par sì lunge, oltr’a quell’alpi, il porti,
Che più nè seguitarlo
25Spero nè rìtrovarlo.
     Or pur cadrò; m’è tolto il mio sostegno
E più saldo e più fido:
Nè, se ben piango e grido,
M’ode o si piega il mio nemico indegno.
30Ma come tanto sdegno
In ciel ver’ me sì tosto?
In ciel ch’or m’avea posto

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In parte da bearme,
Or congiurato par tutto a dannarme?
    35A che pur tante e tante, Amor, versarmi
In grembo tue ricchezze,
E di tante allegrezze il côr colmarmi,
Per or più che mai farmi
E povero e doglioso? In ciel beato
40Lasso! fui poco: or cággione, e dannato
Per sempre; nè già2 mio
(E questo è ch’io mi doglio)
Superbo orgoglio od altro fallo rio.
     Per troppo aspro vïaggio
45E lungo il giovin mio Genebro porti.
Deh, no ’l trar di quest’orti
Cultor! deh, sia più saggio!
Ahi, ch’ogni picciol raggio
Di sole, ogni aura leve, gentil fronda
50E ramo, come i suoi, séccane e sfronda!
     Ne riponeva in ciel, pianta al ciel grata,
Tua bella vista sola;
Ne riponeva in ciel, pianta beata,
L’ombra ch’or mi s’invola.
55Ahi folle e dispietata
Man che d’orto sì bel ti sveglie e parte,
Misera! e per piantarte
Ove? in gelata riva,
Ove fior maggio a pena o fronde ha viva.
     60Agli esperidi orati alteri frutti
Le foglie d’un Genebro i’ pongo avanti,
E ’l vago stelo a tutti
I più dritti arboscei degli orti santi,
E ’l vivo verde a quanti
65Smeraldi mai diènne il più ricco lido.
Però grido: — Quell’empio che men priva,
M’invidia ben ch’io viva.—
     Ancisa or la mia speme,
Anima illustre, cade a tua partenza,

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70Come vite che senza
Sostegno atterra le sue frondi estreme;
E qual fior, s’altri il preme,
Il suo bel giallo o rosso, ella tal perde
Il suo vivo bel verde.
     75Toltomi, Amor, del mio Genebro amato
L’odor di che nudrissi
Il côr, nè d’altro io vissi,
Questo or sia del mio sen l’ultimo fiato:
Nè vo’ che di mio stato
80Tu curi o mi soccorra, e schivo tutti
Tuoi più salubri frutti;
Anzi tuo latte e mêle
Odio qual tôsco o fêle.




Note

  1. Luigi Maria Rezzi, che primo diè in luce questa canzone (Roma, tip.delle B. Arti, 1835), molto si affaticò a dimostrarcela come opera genuina di Lodovico Ariosto; ma le sue ragioni riuscirono appena a farcela credere della penna medesima che aveva scritta l’antecedente «Quando ’l sol parte ec.» Diffatti, oltre a certa diversità nello stile, quella ancora del genere poetico, che qui non è il pastorale, e più quella del sentimento che la informa, ci portano a conchiudere anche io ciò diversamente dal sopraddetto editore. La stessa irregolarità del metro dà a divedere un versificatore più licenzioso e meno esperto di quel che fossero il Ferrarese ed il Varchi. Di Jacopo de’ Servi, di Giulio Cammillo e di Gianfrancesco Bosello (cantore di una Ginevra degli Orsi bolognese, e ricordato dal Rezzi), non sapremmo che dire, mancandoci il modo di paragonare la controversa da altre loro composizioni. Comechessía, non pare a noi che la forosetta Ginevra, che sottraendosi alla madre gelosa recasi in segreto luogo a render felice l’amato pastore, sia la Ginevra medesima a che altri dà il nome di anima illutre, per la cui parienza Arno impoveriva, arricchivasi anzi s’incoronava la Saona, e il poeta, che all’ombra di lei provato aveva celesta beatitudine, cadeva in terra, come vite alla quale fu tolto il suo sostegno: linguaggio (al creder nostro) più che d’amante ad amata, di favorito e protetto verso la sua protattrice.
  2. Vollesi qui sottinteso per; e il Rezzi dicevalo modo notabile, e simile agli usati colle voci colpa, mercé, bontà, vergogna e simili. Forse il poeta, che a noi non sembra dei più valenti nella grammatica, credè che il per anteposto a sempre, potesse anco reggere, come preposizione, i nomi mio orgoglio o fallo.