Opere minori (Ariosto)/Elegie e Capitoli/Capitolo I

Capitolo I

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CAPITOLO PRIMO.




     Del bel numero vostro avrete un manco,
Signor; chè qui rest’io,1 dove Appennino
3D’alta percossa aperto mostra il fianco,
     Che per agevolar l’aspro cammino
Flavio gli diede in ripa l’onda ch’ebbe
6Mal fortunata un capitan Barchino.2
     Réstomi qui, nè quel che amor vorrebbe,
Posso a Madonna soddisfar, nè a voi
9L’obbligo sciôr che la mia fè vi debbe.
     Tiemmi la febbre, e più ch’ella m’annoi,
M’arde e strugge il pensar che l’importuna,
12Quel che far pria devéa, l’ha fatto poi:
     Chè s’ero per restar privo dell’una
Mia luce, almen non dovea l’altra tôrmi
15La sempre avversa a’ miei desir fortuna.
     Deh! perchè quando onestamente sciormi
Dal debito potea che qui mi trasse,
18Non venne più per tempo in letto a pormi?
     Non fu mai sanità che sì giovasse

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A peregrino infermo, che tra via
21Dalla patria lontan compagno lasse,
     Come giovato a me in contrario avria
Un languir dolce, che con scusa degna
24M’avesse avuto di tener balía.
     Io so ben quanto mal mi si convegna
Dir, signor mio, che fra sì lieta schiera
27Io mal contento sol dietro vi vegna:
     Ma mi fido ch’a voi, che della fiera
Punta d’amor chiara notizia avete,3
30Debbia la colpa mia parer leggiera.
     Vostre imprese così tutte sian liete,
Come è ben ver ch’ella talor v’ha punto,
33Nè sano forse ancora oggi ne sete.
     Sapete, adunque, s’avría male assunto
Chi negasse seguir quel ch’egli accenna,
36Quando n’ha sotto il giogo il collo aggiunto:
     Se per spronare o caricar d’antenna
Si può fuggir, con cavallo o nave,
39Che non ne giunga in un spiegar di penna.
     Tal fallo poi di punizion sì grave
Punisce, oimè! che ardisco dir che morte
42Verso quella a patir saría soave.
     Questo tiran non men crudel che forte,
Che anco mai perdonar non seppe offesa,
45Nè lascia entrar pietà nella sua corte;
     Perchè mille fiate, e più, contesa
M’avea la lunga via che sì m’assenta
48Da quella luce in c’ho l’anima accesa;
     Dell’inobbedïenza or mi tormenta
Con così gravi e sì penosi affanni,
51Che questa febbre è ’l minor mal ch’io senta.
     Lasso! chi sa ch’io non sia al fin degli anni?
Chi sa ch’avida morte or non mi tenda
54Le reti qui d’intorno, in che m’appanni?4

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     Ah! chi sarà nel ciel che mi difenda
Da questa insidïosa? a cui per voto
57Un inno poi di mille versi io renda;
     E nel suo tempio, a tutto il mondo noto,
In tavola il miracolo rimanga,
60Come sia per lui salvo un suo divoto?
     Chè se qui môro, non ho chi mi pianga:
Qui sorelle non ho, non ho qui madre
63Che sopra il corpo gridi o il capel franga;
     Nè quattro frati miei,5 che con vesti adre
M’accompagnino al lapide6 che l’ossa
66Dovría chiuder del figlio a lato il padre.
     Madonna non è qui, che intender possa
Il miserabil caso, e che l’esangue
69Cadavero portar veggia alla fossa;
     Onde forse pietà, che ascosa langue
Nel freddo petto, si riscaldi, e faccia
72D’insolito calore arderle il sangue.
     Chè s’ella ancor l’esanimata faccia
Mira a quel punto, ho quasi certa fede
75Ch’esser non possa che più il corpo giaccia.
     Se del figliuol di Giapeto si crede,
Che a una statua di creta con un poco
78Del febéo lume umana vita diede;
     Perchè non crederò che ’l vital fôco
Susciti ai raggi del mio sol, qui dove
81Troverà ancor di sè tepido il loco?
     Deh! non si venga a sì dubbiose prove:
Più sicuro e più facile è sanarmi,
84Che costringer i fati a leggi nuove.
     Se pur è mio destin che debbia trarmi
In scura tomba questa febbre, quando
87Non possa voto o medicina aitarmi;
     Signor, per grazia estrema vi domando,
Che non vogliate della patria cara
90Che sempre stien le mie reliquie in bando.
     Almen l’inutil spoglie abbia Ferrara;
E sull’avel che le terrà sotterra,
93La causa del mio fin si legga chiara:

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     — Nè senza morte talpa dalla terra,
Nè mai pesce dall’acqua si disgiunge;
96Nè potè ancor chi questo marmo serra
     Dalla sua bella donna viver lunge. —




Note

  1. L’Ariosto, nell’andar che faceva da Ferrara alla corte d’Urbino in compagnia del cardinale Ippolito suo signore (1514 o 1515), cadde malato presso una parte degli Appennini detta il Furlo, e dovè arrestarsi probabilmente a Fossombrone, ove scrisse il presente Capitolo. Alludono le prime due terzine a Flavio Vespasiano che, per agevolare la via Flaminia da Rimini a Roma, fece un taglio in quelle montagne; e ad Asdrubale Barca cartaginese, fratello di Annibale, che fu vinto ed ucciso presso il Metauro, in quelle vicinanze, dal console Claudio Nerone. — (Molini.) — Vedi anche Baruffaldi, Vita ec., pag. 161 e 162.
  2. Derivato dal cognome cartaginese Barca; come nel IV dei Cinque Canti; al principio della st. 12.
  3. Sono noti gli amori del cardinale Ippolito, e i tristi effetti che ne seguitarono ad un fratello suo rivale. Il Baraffaldi li confermò, citando i versi latini di Guido Postumo, che fu medico del porporato, il quale così scriveva ad una sua amica, parlando di esso Ippolito: «Illi carus ego, et per me carissima fies Tu quoque amans; nostras sensit et ille faces.» Vita ec., pag. 122 e 123.
  4. In che mi prenda (come si fa degli uccelli nella rete o ragna, detta talvolta anche Panno). Vedi la Crusca, sotto la voce Appannare.
  5. Vedi la nota 5 a pag. 208.
  6. Così piacque al nostro declinar questo nome; con unico esempio forse, con buona ragione, se all’origine voglia aversi riguardo.