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capitolo primo. 253

     — Nè senza morte talpa dalla terra,
Nè mai pesce dall’acqua si disgiunge;
96Nè potè ancor chi questo marmo serra
     Dalla sua bella donna viver lunge. —




CAPITOLO SECONDO.




     Di sì calloso dosso e sì robusto
Non ha nè dromedario nè elefante
3L’odorato Indo o l’Etiópe adusto,
     Che possa star, non che mutar le piante,
Se raddoppiata gli è la soma, poi
6Ch’ei l’ha qual può patir, nè può più innante.1
     Legno non va da Gade ai liti eoi,
Che di quanto portar possa, non abbia
9Prescritti a punto li termini suoi.
     Se stivata ogni merce, anco di sabbia
Più si raggrava e più, si caccia al fondo,
12Tal che nè antenna non appar nè gabbia.
     Non è edificio, nè cosa altra al mondo
Fatta per sostentar, che non ruine,
15Quando soverchia le sue forze il pondo.
     Non giova corno o acciar di tempre fine
All’arco, e sia ancor quel che uccise Nesso,
18Che non si rompa a tirar senza fine.
     Ahi lasso! non è Atlante sì defesso2
Dal cielo, Ischia a Tiféo non è sì grave,
21Non è sotto Etna Encelado sì oppresso;
     Come mi preme il gran peso che m’have
Dato a portar mia stella mio destino,3
24E che a principio sì m’era soave:
     Ma poi ch’io fui con quel dritto a cammino,


  1. La lezione di queste due terzine è conforme a quella che il Barotti avea trovata nei manoscritti, correggendo gli errori diversi delle antiche edizioni.
  2. Può aggiungersi agli esempî del Pulci.
  3. Cioè, come a noi pare assai chiaro, il servigio del cardinale Ippolito, di cui mena più volte lamento nelle Satire.
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