Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova/XVIII
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RITORNO
DI
TELEMACO
basso rilievo in gesso
XVIII.
La gioja universale, e le liete grida del popolo esultante pel sospirato ritorno di Telemaco, già echeggiano nella Reggia d’Ulisse, e penetrano negli appartamenti dell’afflitta Regina. Ecco che scende essa velocemente dalle sue stanze, e mentre corre incontro al figlio, le viene esso additato da due ancelle che stavano allora allora accomodando la sala, e stendendo, di mala voglia, morbide pelli sopra i sedili dei Proci. Penelope porta scolpita nel volto, ed in tutta la nobil persona, quella matronale dignità, per la quale Omero a Diana soleva paragonarla; ed esprime in tutta sè stessa più la sorpresa, e l’inquietudine di non vedere in compagnia del figlio lo sposo, che la contentezza di riveder Telemaco. Il movimento della testa, delle braccia, della persona, tutto interroga in essa, tutto richiede d’Ulisse. Quantunque fosse Penelope amorosissima madre, non meno che sposa affettuosissima, Canova, indagatore profondo ed attento di tutte le affezioni del cuore e delle tortuose sue pieghe, non esitò punto a rappresentarcela più inquieta per l’assenza dell’uno, che lieta pel ritorno dell’altro. La presenza medesima di Telemaco la rassicura. Cedono alla sua vista le amorose sue sollecitudini pel figlio, e tutte si rivolgono alla mancanza del troppo necessario e troppo sospirato suo sposo. Il ritorno di Telemaco, che s’era posto in viaggio espressamente per andare in traccia del padre, le riesce tanto più amaro, quanto le toglie l’ultimo e caro bene, la dolce speranza che pure avea che ei potesse rinvenirlo. E quante volte non abbiamo sentito in noi stessi, che il pericolo, o la perdita di un oggetto assai caro ci fa provare una certa apparente sì, ma assoluta indifferenza per tutti gli altri oggetti che ci circondano, e che ci sono pur tuttavia forse più cari di quello medesimo, che tutta sembra occupare in quel punto l’anima nostra! Telemaco, entrato anch’egli in quell’istante nella sala, e lasciata l’asta che aveva in mano alla porta, corre incontro alla madre; se non che viene trattenuto da Euriclea, che nella confusione del piacere, e nel trasporto della gioja volendogli baciare la mano, con bell’errore gli bacia avidamente il braccio che sostiene con ambe le mani. Essa, quasi non paga di stringerlo, alza gli occhi per riguardarlo, e lo guarda con l’ansietà di quell’amore sì naturale in una Greca nutrice; che vice-madre con ben dovuto nome nella Grecia veniva chiamata non solo quella benemerita donna che di sè crescea il figlio ed integra lasciava la beltà della madre, ma quella pure che, non so se con eguale o maggiore benemerenza, vegliava sollecita ed attenta con la madre, o con la nutrice, onde allontanare da quella inferma e misera età i pericoli che la circondano. Telemaco, mentre abbandona il braccio destro alla buona Euriclea, stende con vivacità l’altro verso la madre esprimendole e la gioja che aveva di rivederla, e quasi rassicurar volendola che più non temesse, che non lontano stava il desiato suo sposo. Una giovinetta semplicissimamente vestita, e di candida semplicitade adorna il volto, sta dietro al figliuolo d’Ulisse, e non veduta nè da lui, nè da gli altri, inchinandosi alquanto, gli bacia il lembo della veste. Essa esprime nella sua divota attitudine la bella spontaneità di quell’atto segreto, non consigliato nè dalla speranza, nè dal timore. Omaggio purissimo, altrettanto dolce per chi l’ottiene, quanto difficile ad ottenersi.