Opere di Gabriello Chiabrera e di Fulvio Testi/Gli Editori
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GLI EDITORI
Vanto singolare e non contrastato dell’Italia nostra è quello di aver preceduto tutte le altre nazioni europee nella carriera del rinnovamento sociale, essendo stata la prima a salutare l’aurora del risorgimento delle lettere, delle scienze e dell’arti. La fondazione de’ municipj indipendenti, spegnendo in gran parte della penisola più presto che altrove i reggimenti feudali, nell’atto stesso che diè origine a più miti e saggi ordini civili, valse a promovere lo sviluppo degli ingegni e delle varie attitudini intellettuali. Quindi preceduto, se così possiamo esprimerci, dall’aura de’ nuovi tempi, sì vide sorgere sulle terre italiche il sole dell’incivilimento, che presto quasi tutte le scaldò e rese feconde di meravigliosi frutti. L’ammirazione e la riconoscenza di tutte le colte nazioni proclamano le glorie dei nostri ingegni; e i grandi beneficj ch’essi resero a tutta intiera l’umanità, da quel prodigioso creatore della moderna poesia, pittore delle passate e profeta delle future vicende d’Italia, a quel Grande che divinò un nuovo mondo; dall’angelico Raffaello: al terribile Buonarroti, dal fantastico Lodovico al tenero ed infelice Torquato. Se non che la condizione della nostra civiltà, secondò quasi sempre la nostra fortuna politica, e dove questa ci arrise, fu lieta anche quella, e venner meno all’una il brio, la vita, il nativo calore, quando D’altra ci condusse giorni tristi e dolorosi, giorni di sconvolgimento, di inerzia e di servaggio. Tuttavolta anche in que’ tempi, che sono più fatalmente segnati dalle nazionali nostre calamità, non si spense mai del tutto fra noi la favilla dell’inspirazione; ed eziandio in quel periodo disgraziato, in cui per colpa specialmente delle straniere influenze insieme all’altre miserie ebbe l’Italia a gemere ed a vergognarsi della depravazione del gusto, condotta dal corrompimento dell’indole nazionale, sorsero pur sempre in Italia filosofi e poeti, letterati ed artisti degni della patria di Tommaso d’Aquino e dell’Alighieri, del Petrarca e di Leonardo. Solennissimo fatto è codesto e tale, per nostro avviso, da meritare che vi pongano mente gli Italiani tutti, e quanti sono equi giudici della nostra nazione, perocchè prova, che la sventura ci aveva oppressi, ma non prostrati nè avviliti.
Nè già solo questi privilegiati ingegni s’adoperarono a serbare inviolato l'onore della patria, ma intesero benanco a confortarla e sollevarla nelle sue sciagure. Nel che specialmente si segnalarono alcuni de’ poeti del secolo XVII, i quali provarono col fatto, come fosse loro scolpita nel petto quella sentenza, omai resa popolare e chiara ad ogni intelletto, che nullo è il ministero poetico; ove non valga a suscitare nobili ed operativi sentimenti, rivolti all’utile morale e civile delle contemporanee generazioni. Fra essi noi pensiamo che vadano distinti Gabriello Chiabrera e Fulvio Testi, i quali poco distanti l’un dall’altro di tempo, parvero concordi in questo pensiero di far servire la poesia ad alimentare tutti i sentimenti, che meglio potevano giovare a scuotere gli Italiani dal loro anneghittimento, od a consolarli in mezzo all’indecoroso, ma non volontario ozio in cui languivano. Diversi l’uno dall’altro d’indole e di stato, posti in diverse circostanze, diversi d’ingegno, d’animo, di stile; entrambi però siccome inspirati da un medesimo sentimento, tolsero a cantare ne lor versi le antiche e recenti glorie della patria, rendendo omaggio a tutte le virtù cittadine, e facendo segno alla generosa loro ira la codardia; l’ossequio servile; la volgare ambizione, la cortigianesca piacenteria e tutto ciò che d’ignobile ravvisavano ne’ costumi ‘e nelle inclinazioni dell’età loro. Ma pur troppo essi non riuscirono a quel generoso fine a cui aspiravano; che anzi l’ignavia de’ tempi tarpò le ali agli arditi lor voli, per modo che non poterono nè del tutto separarsi dalla moltitudine, nè sdebitarsi intieramente di quella missione, a cui il loro genio li chiamava.
E ciò sembraci che dir si possa principalmente del Chiabrera, il quale ben a ragione scrivea di sè stesso, che seguiva Cristoforo Colombo suo concittadino; e che volea trovar nuovo mondo od affogare; perocchè ad emergere creatore d’una nuova poesia, non gli mancarono certo nè vigore, nè ingegno: ben gli mancarono i tempi, i quali, giusta una sentenza antica, soli ponno gli animi rafforzare e gli ingegni. Ed infatti, che di poetico mai rimaneva ne’ costumi e ne’ pensieri dell’Italia in quel fatale, e inglorioso secolo XVII, che avrebbe cancellata negli Italiani ogni impronta d’indole nazionale, se l’opera del tempo e della natura, non fosse più forte dei congiurati sforzi degli uomini? Solo rimaneva qualche avanzo di spirito cavalleresco, il quale mandava ancora un po’ di luce nelle guerre marittime del Levante, che da petti italiani, ma le più volte sotto non italiana bandiera si combattevano, per preservare la civiltà europea dalla ottomana barbarie. E di esso ben seppe fare suo profitto il Chiabrera, e più volte lo esaltò ne’ suoi versi, per tentare di riaccendere qualche favilla di coraggio marziale nella nazione; ma l’effetto non corrispose all’onorato suo desiderio. Ei colse pare premurosamente ogni altra occasione di celebrar co’ suoi canti l’italico valore, e fu largo di encomj a molti de’ Principi del suo tempo, non per vano studio di adulazione, ma per brama d’accenderli di generoso entusiasmo e di eccitarli ad opere forti e gloriose. Nessuno dei fatti che potevano tornare in qualche onore e vantaggio dell’Italia, passava per lui inosservato; onde egli celebrò ne’ suoi versi il giuoco del pallone, ordinatosi in Firenze dal Granduca Cosimo II, perchè gli parve che da codesta instituzione potesse venirne qualche eccitamento a’ suoi contemporanei di cercar lode di prodezza e di rintegrare l’omai scaduta fama dell’italica milizia. Ma sciaguratamente egli non venne a capo dell’alto suo proposito, e appena trovò chi ne lo rimeritasse con quella sterile ammirazione, la quale riesce amara pur essa al genio, che sente la propria forza, e vedesi impedito di correre la sua via. Il perchè accortosi che un popolo da ascoltarlo non c’era, egli che avrebbe anelato d’essere il Pindaro dell’Italia sua; egli che avrebbe voluto animarla ed esserne animato, riconcentrossi tristamente in sè medesimo, e smarrita quella vena che spontanea soccorre a un poeta inspirato dallo spettacolo di tutta una gente, che accoglie festosa i suoi canti, fu costretto di ricorrere all’arte per ritrovarne un’altra. Quindi tratto dalle reminescenze della sua più verde età, si diede a cercar l’inspirazione nelle opere di quei grandi poeti greci, di cui un tempo avea vagheggiata la gloria, e che avea promesso a sè medesimo di emulare; onde, se così possiam dire, parlò le più volte greco invece di parlar italiano. E di vero i suoi canti sono un’eco armoniosa e chiara de’ canti mitologici della antichità; un’immagine di quel linguaggio, che la Grecia adunata inspirava al suo lirico sublime, anzichè l’espressione d’un vero entusiasmo, che pur troppo nelle cose contemporanee non ritrovava alimento.
Taluni domandarono, se l’illustre Savonese non avrebbe potuto assicurarsi il vanto d’Anacreonte italiano, dacchè non poteva esserne il Pindaro nè il Tirteo. Certamente se guardiamo alla vivacità ed alla gentilezza del suo ingegno, non può esser dubbia la risposta affermativa, ma ove meglio si ponga niente alla condizione di quei tempi, si scorge che i costumi d’Italia erano divenuti troppo artificiali, perchè egli potesse cantare neppur gli scherzi e gli amori col vero accento della natura. Tuttavolta come nelle poesie liriche del Chiabrera d’argomento eroico trovansi spesso i voli arditi d Pindaro, così talora s’incontrano nelle sue canzonette i vezzi e le immagini di Anacreonte: ma l’entusiasmo del primo, ma le grazie dell’altro non vi si ponno trovare. Più felice fu il Savonese ne’ sermoni, ne’ quali seppe ritrarre l’arguzia, l’ironia, la finezza d’Orazio, insieme all’ira virtuosa di Giovenale, mentre a un tratto vi introdusse una fedele pittura dei costumi del tempo, che appar tratteggiata da un uomo che li vedeva nella loro nudità, e n’era tanto sdegnato, da non saper nascondere l’amarezza che all’animo gliene veniva. Aspersi di sali saporitissimi sono, a tacer degli antichi, i sermoni di Gaspare Gozzi, per mordacità distinti quelli di Giuseppe Zanoja, pieni di soave sapienza quelli d’Ippolito Pindemonte, ma a noi sembra che a questi e a quanti altri ne vanta la nostra letteratura, si debbano metter sopra quelli del Chiabrera tante sono le doti che in essi risplendono, o li guardi dal lato del pensiero, o li consideri dal lato della lingua e dello stile
Il Chiabrera provossi in altri generi di poesia, e fra gli altri nella poesia sacra: ma non gli venne fatto di ottenerne egual lode. L’arpa di Davide e de’ Profeti non poteva rendere suoni abbastanza franchi sotto le dita di chi era uso a toccare la lira di Pindaro e d’Anacreonte; vogliam dire che la Fantasia e l’anima del Chiabrera erano troppo distratte da altre immagini e da altri affetti, troppo devote, se così possiamo esprimerci, ad altri culti, per poter concepire ed esprimere i concetti della sacra poesia con evidenza ed efficacia. Tuttavolta così ne’ saggi, ch’egli die’ di questo genere, come pure in ogni altro suo componimento, ed anco ne’ meno limati, sempre si ravvisano que’ pregi di pensiero e d’espressione che costituiscono i grandi poeti; ed ora un’evidente immagine, ora un ardimento di stile, quando una felice negligenza, quando una nativa eleganza ci traggono ad ammirare in lui gli elementi d’una vera e potente facoltà poetica, che avrebbe meglio potuto svilupparsi, se fosse stata giovata dai tempi.
Tuttavolta, se i tempi al Chiabrera non giovarono, molto però non gli nocquero quanto al gusto; poichè seppe quasi del tutto andar franco della pazzia del secentismo, che già avea messi molti rami, e s’era propagata in ogni parte d’Italia. Ben nocquero sotto questo rispetto a Fulvio Testi, sortito a vivere mentre quell’assurdo gusto era nel suo più bel fiore, il quale anco ne’ suoi componimenti più lodati non potè sottrarsi del tutto alla pessima influenza di esso. Di ciò si potrebbero trovate ragioni, non intieramente speciose per nostro avviso, nell’indole e nelle vicende della vita dei due poeti. Gabriello Chiabrera, siccome appare dalla vita ch’egli dettò di sè stesso con tanta ingenuità e tanto candore di stile, era d’una natura benigna, tranquilla, gioconda, aliena da ogni briga, e solo a balzi tocca, ma non corrotta dalle incomposte passioni del secolo. Fulvio Testi al rovescio ebbe un animo ardente, impetuoso, insofferente di freno, troppo perduto dietro le illusioni del fasto e della grandezza. Condusse l’uno una vita riposata in grembo alla soavità degi studj assorto unicamente in essi, e solo in essi cercando compiacimento e gloria, e ponendo la poesia in cima di tutti i suoi pensieri: l’altro invece trasse una vita agitata, ed amò gli studj non tanto per sè stessi, quanto come opportuni mezzi di soddisfare quell’ambizione che lo rodeva, provando tutte quelle amarezze e quei disinganni che conseguitano le cure degli ambiziosi. L’uno stette a lunga dimora nella sua patria, beando gli sguardi e la fantasia in que’ bei prospetti della riviera di Savona, sotto quel cielo così ridente, su quei lidi così fioriti di tutte le pompe della natura: l’altro all’incontro passò il più de’ suoi giorni in mezzo a lo strepito delle corti ed alle vane loro magnificenze, e corse da luogo a luogo, non già tratto da vaghezza di contemplare le varie parti di questa bellissima Italia, ma per tener dietro alle larve sempre fuggevoli dell’ambizione. Or pare a noi che dovesse per tutto ciò compiacersi il Chiabrera del gusto semplice e corretto, siccome confacente meglio all’indole sua ed alle sue abitudini, e invece lasciarsi più agevolmente strascinare il Testi a quell’altro gusto più pomposo e magnifico, che nella sua gonfiezza secondava gli impulsi di un animo rdente, e che d’altra parte avea allora maggior seguito in tutte la corti d’Italia. Il perchè se del Chiabrera convien dire che lottò contro i tempi, e che migliore di essi, cercò d’arrestarli sul pendio del corrompimento, del Testi è forza soggiungere che fu in parte formato dai tempi stessi, e che dall’essere in tutto traviato lo salvarono il proprio ingegno e le sofferte sventure. E infatti traendolo l’ingegno ai soggetti morali ed allo studio di Orazio, egli potè trovare nella trattazione dei primi una specie di freno agli abusi della fantasia, trovar nell’imitazione dell’altro un ritegno contro la corruzione dello stile. Le disgrazie poi ch’egli ebbe a patire, movendolo ad ira contro il secolo, e segnatamente contro i vizj che prevalevano nelle corti, contro le brighe ed i raggiri che vi dominavano, trusfusero ne’ suoi versi una vera efficacia di tuono, e fecero ch’essi diventassero una genuina rivelazione dell’anima sua. Noi non osiamo affermare che tale sia veramente il carattere delle poesie del Testi: ma ci pare che possa di primo tratto affacciarsi a chi conosce le vicende della sua vita, delle quali crediamo opportuno di far qualche cenno, che ricaviamo dal Tiraboschi e dal Corniani.
Fulvio Testi nacque in Ferrara nel 1593, e sin dal 1612 egli era salito in fama di valore poetico nella sua patria; ma non per tanto si crede che l’anno dopo, entrando al servigio della corte di Modena, non vi avesse se non l’ufficio di copista. Nel 1613 si condusse a Roma, dove conobbe il Tassoni, e di là a Napoli, dove strinse amicizia col cavaliere Marino. Nel 1617 pubblicò un’edizione delle sue Rime, dedicata a Carlo Emanuele, duca di Savoja, per la quale gli convenne andar esule, perchè il governo Spagnuolo, irritato da alcune sue espressioni, si diede a perseguitarlo. Come il duca di Savoja ebbe notizia di questo esiglio patito dal Testi, in conseguenza delle poesie a lui dedicate, lo nominò cavaliere dell’ordine de’ santi Maurizio e Lazzaro: dopo di che il duca Cesare d’Este gli assegnò una pensione, fregiandolo dello strano titolo di suo virtuoso di camera. Per l’onore delle lettere e degli ingegni, è lieto a pensare che siffatto titolo sia a dì nostri serbato a cantanti.
Questi ed altri favori concessi al Testi, destarono l’invidia degli emuli suoi; ed egli medesimo, per usare le parole d’un valente scrittore, o che la nuova fortuna lo insuperbisse, o che la propria natura a questo il traesse, si attirò l’inimicizia di molti così in Modena come altrove; ed a poco a poco si disaffezionò anche l’animo de’ suoi Signori, de’ quali più volte perdette e riebbe la grazia. Pare soprattutto che la corte di Modena gli paresse troppo angusto campo a’ suoi meriti, e che per ciò aspirasse a più luminoso soggiorno, vagheggiando or Roma, or la corte di Savoja.
Dopo il 1629 divenuto duca di Modena Francesco I d’Este, ebbe il nostro poeta moltissimi onori in corte e ragguardevoli ufficj presso varj potentati. Quando il duca andò a Madrid nel 1638 per levare al fonte battesimale un figliuolo di Filippo IV, condusse con sè il Testi, il quale ebbe da quel Monarca una lucrosa commenda, e fu ascritto all’ordine di san Jago. Nel 1640, ottenne il governo della Garfagnana, governo, dice il Corniani, onorato un secolo prima dal grande Ariosto; ma non seppe al pari di lui acquistarsi l’amore di quegli Alpigiani. Due anni dopo ritornò alla corte, dove la sua ambizione lo traeva, e vi riebbe tutti gli onori di prima. Ma sul principio del 1646 fu improvvisamente arrestato, e il giorno 28 agosto del medesimo anno morì in prigione, di morte, secondo alcuni, violenta, secondo altri, naturale. Si dice ch’ei fosse creduto reo di delitto di Stato; ma il Tiraboschi opina che non avesse altra colpa tranne quella d’aver cercato di entrare al servigio della corte di Francia, senza nemmanco avvisarne il suo duca. Forse gli nocque altresì lo sdegno di qualche potente, irritato da lui colla sua famosa canzone: Ruscelletto orgoglioso: al certo poi egli nocque a sè stesso colla sua troppa ambizione.
Tali furono le vicende a cui soggiacque questo illustre poeta, la cui vita fu davvero, come il Tiraboschi dice, un continuo alternare di prospera ed avversa fortuna. Certamente chi nulla sapesse del Testi, non potrebbe immaginarsi, al leggere i suoi versi, ch’egli sia passato fra tanti casi; ma che abbia avuto molti argomenti di sdegnarsi contro la poca fede de’ grandi, contro il mutabile favore delle corti e la inerzia e la servilità de’ suoi contemporanei, potrebbe di leggieri congetturarlo dal tuono stesso delle sue poesie. In esse voi non trovate quella pacata gravità, che rende più autorevole la saggia sentenza, passata, a così dire, dalla mente del filosofo, all’immaginazione del poeta, ma invece incontrate sovente la risentita declamazione e cert’impeto di bile, che non par sempre prodotto da un forte senso del bene comune, bensì da un moto di privato dispetto. In somma nei versi del Testi non si vede già, come in quelli del Chiabrera, il puro amatore della patria e del retto, che anela tempi ed ordini migliori, e cerca di fare illusione a sè stesso nella speranza di poterli vedere; ma sibbene un uomo corrucciato contro l’età sua, per essere stato deluso ne’ sogni della sua ambizione, un uomo malcontento di sè stesso per la contraddizione che scorge fra suoi pensieri e l’opere sue; un uomo, a dir breve, che rende immagine d’un ministro, il quale, privato del potere, e non avendo più speranza di racquistarlo, dassi a far mostra di filosofico disprezzo, e prende a lodare la pace de’ campi e del focolare domestico. Ad’ogni modo assai efficace è il sentimento trasfuso nelle poesie del Testi, ed anzi ci pare che sì fatto corruccio non bene simulato accresca l’effetto delle gravi lezioni morali in esse racchiuse.
Il Testi non ci ha rivelato, come il Chiabrera, quali fossero gli scrittori da lui prediletti, nè a qual meta di gloria egli drizzasse sin da suoi anni più verdi le prove del suo ingegno; ma crediamo che sì possa asserire con sicurezza, ch’egli studiasse principalmente in Orazio, ma piuttosto nell’Orazio delle Epistole, che in quello delle Odi, e che vagheggiasse la nobile corona di poeta della sapienza civile. Del rimanente bisogna pur dire, che talvolta non solo riuscì minore del suo modello, ma peccò benanco contro le norme più rette della convenienza e del gusto: se non che, in tutte le sue opere, i pregi prevalgono a dismisura sopra i difetti, e però egli otterrà sempre un nobile seggio fra i più illustri lirici italiani.
Queste poche cose abbiamo creduto opportuno accennare intorno à Gabriello Chiabrera e a Fulvio Testi, le cui opere compongono questo Volume Trentesimoquarto della nostra Biblioteca Enciclopedica Italiana. Noi abbiamo stimato opportuno di accompagnare alle poesie anco le prose di questi due illustri scrittori, commendevoli molto anche queste per eleganza e schiettezza di lingua e di stile, e ci siamo per le une e per l’altre attenuti alle migliori edizioni. Così possano le cure che abbiamo spese intorno a questa ristampa ottenerci le grazie de’ nostri gentili Associati.