Opere complete di Carlo Goldoni - Volume I/Prefazioni dell'edizione Pasquali/Tomo V
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L’AUTORE
A CHI LEGGE.
(Tomo V)
Aveva egli per altro lo spirito ambulatorio, che in me trasfuse, e volontà gli venne di andare a Modena, col pretesto di rivedere i proprj interessi, sendo originario di quel Paese, e possedendo colà degli effetti. Trovò del danaro ammassato, se ne prevalse per fare un viaggio, e giunse, non so per quale strada, a Pavia. Diede all’Oste il suo nome, come suol darsi da chi alberga la notte nelle Città. Fu portata la consegna de’ Forestieri al Governatore, che ha titolo in quel paese di Podestà, ed era questi per avventura il Marchese Goldoni, Cavaliere Cremonese, Amplissimo Senator di Milano.
Leggendo il Podestà fra i nomi de’ Forestieri quel di Giulio Goldoni, volontà gli venne di vederlo e conoscerlo, e sentendo ch’era un Dottore, gli mandò una gentile ambasciata. Andò mio Padre a Palazzo; si diede a conoscere per quel galant’uomo che egli era, e con quello spirito che a lui non mancava, guadagnò l’animo del Cavaliere. Lo guadagnò a tal segno che interrogatolo, se aveva Figliuoli maschi, e sentendo che era provveduto di due, gli esibì di collocar il maggiore in uno di que’ Collegi, e segnatamente nel Collegio Ghisleri, detto volgarmente del Papa, perchè instituito fu da Pio Quinto. L’esibizione poco, è vero, costava al Signor Marchese, ma la sua protezione molto potea giovarmi ed avrebbe fatta la mia fortuna, se avessi saputo io prevalermene, e non mi avesse precipitato una ragazzata, di cui mi riserbo altrove parlare, senza risparmiarmi quel rossore e quei giusti rimproveri, che sono dovuti alla mia giovanile condotta.
Partì dunque mio Padre di là contento, destinando me a quel Collegio, come suo primogenito, allora quando avessi l’età per entrarvi, mancante ancor di due anni. Dicea fra sè giubilante1: Frattanto il mio caro Figlio terminerà con profitto in Rimini lo studio della Filosofia. Non vedea l’ora di giungere a Chiozza per partecipare alla Moglie questa buona ventura, ma qual fu mai la di lui sorpresa, allora quando colà tornato, trovò il suo Filosofo, innanzi il tempo e senza di lui saputa, partito da Rimini e da pochi giorni in casa sua ricovrato? E superfluo il dire quali fossero i suoi rimproveri e le sue correzioni; dirò piuttosto per qual motivo e con quale occasione partii da Rimini ed a Chiozza mi trasportai.
Giunse nella città, dov’io era, una Compagnia di cattivi Comici a rappresentare le loro triste Commedie. Andai al Teatro la prima sera, mi parve un zucchero e non avea più cuore d’abbandonarli. M’introdussi a poco a poco sul palco, contrassi qualche amicizia con quelle cortesi Donne, comunicai ad esse il mio genio Comico, mi chiesero dei Dialoghi, dei Soliloqui; ed io ogni sera andava provveduto di fogli scritti, che mi venivano ricompensati con gentilezze e con libero ingresso alla Porta, nella Platea, sul Palco e nelle loro case particolari. Ciò rincresceva al mio ospite e mio custode, che non mancava di ammonirmi e rimproverarmi; ed io con una Filosofia, che non avea imparata alle scuole, soffriva in pace i rimbrotti e seguitava a fare a mio modo. Frattanto giunsero i Commedianti al termine delle loro recite; si disponevano alla partenza, ed io mi sentiva portar via il cuore. Si avevan eglino ad imbarcar per Venezia, sapevano ch’io aveva la casa in Chiozza, connobbero la mia debolezza, mi esibirono di condurmi colà nella loro barca. Accettai il partito, mi congedai dal mio albergatore, poco di me soddisfatto, e diedi un addio per sempre alla stucchevole, scolastica Filosofia.
L’amico di Rimini scrisse lettere poco a me favorevoli al mio Genitore, ma egli non era in Chiozza, e la Madre tenera ed amorosa mi accolse pietosamente e mi compatì.
Coll’occasione ch’io sbarcare doveva, sbarcarono i Commedianti ancora, e veduti passeggiar colle loro Donne, fu loro fatto il progetto di trattenersi per venti recite in quel Paese. Accettarono essi il partito, ed io ebbi la bella sorte di non perdere il mio prediletto divertimento.
Giunse frattanto, com’io diceva, mio Padre, e fattomi il complimento ch’io meritava, mi allontanò da’ Comici e diede alle fiamme tutti quegli originali preziosi, che potè ritrovare da me composti per un cattivo Teatro.
Io poi, per dire la verità, sempre mai stato sono di docile temperamento. M’arresi alle di lui insinuazioni e gli prestai obbedienza. Comunicommi l’idea del Collegio, non mi dispiacque; mi disse che mi volea applicato alla Medicina; vi avea della ripugnanza, ma pure non ebbi coraggio di contraddire. Finchè giungesse il tempo, in cui passar doveva a Pavia per colà studiare la medicina teorica, pensò mio Padre, per occuparmi, di farmi seco lui applicare alla pratica. Mi conduceva seco alle visite, mi faceva far delle osservazioni e m’impratichiva dei polsi.
Avvenne un giorno, che fu chiamato ad assistere ad una Giovane assai più bella che onesta, la quale aveva una malattia ch’io mi dispenso di nominare. Andai io seco secondo il solito, entrai nella stanza dell’ammalata, ma poco dopo mi fece uscire, e perch’io non istessi solo in cucina, venne in mia compagnia la vecchia Madre della Fanciulla, lasciando solo il Medico colla Figliuola. Oh, quante cortesie mi praticò quella buona Donna! M’invitò gentilmente in sua casa; mi disse che la giovane aveva un piccolo male, che non le impediva di stare in buona conversazione, e che poteva andarvi senza mio Padre. In fatti mi approfittai dell’esibizione. Appena mi liberai dal fianco del mio Genitore, tornai colà da me solo. M’introdusse la buona Madre, dicendo: Vedi, Figliuola mia, con qual premura torna qui il Dottorino per intendere del tuo stato: si accosti al letto: dagli da sentire il tuo polso; favorisca di sedere: veda, esamini, osservi; frattanto andrò alla spezieria a prendere il medicamento, che le ha ordinato il Signor Dottore. Partì ella così dicendo. Io restai solo coll’ammalata, ch’era però seduta nel letto, coperta con un grazioso vestito color di rosa, con una cuffia in capo annodata sotto la gola, e con sì vivi colori in viso, che faceano ammalare il Medico. Quand’ecco all’improvviso mio Padre, avvisato non so da chi di questa mia troppo sospetta visita e pericolosa; entra con faccia burbera e risoluta; rimprovera l’ammalata, mi prende per un braccio, seco lui mi strascina, mi guida in casa, e con una maniera la più patetica di questo mondo, mi corregge, mi rimprovera, mi ammonisce; sul gusto quasi di Pantalone nella mia Commedia intitolata: La buona Moglie, allora quando il buon vecchio sorprende all’osteria Pasqualino. Di là in poi non mi condusse in pratica che da vecchi ammalati, informandosi prima se vi era gioventù in casa pericolosa. Ciò mi rese ancor più nojosa la medicina, e tutte le osservazioni che io faceva, non erano che una continua critica sull’incertezza dei mali, sulla vanità dei pronostici e spesse volte sull’inutilità dei medicamenti.
Se mi accadeva sentir de’ consulti in luogo di riflettere alle Dottrine2, agli argomenti, alle ragioni de’ consultanti, non facea che badare alle loro varie caricature, allo studio ch’essi faceano de’ loro Grecismi, e talvolta alla manifesta impostura de’ loro vani suggerimenti. Non ho però perduto il mio tempo, poichè qualche cosa mi è restata nella fantasia impressa, ed ho avuto occasion di valermene posteriormente in alcuna delle mie Commedie. Questo abito di osservare e di rifflettere e di ritenere l’ho fatto senza avvedermene, ed è un effetto del genio Comico, che non si acquista coll’arte, ma proviene dalla natura.
Durai circa due anni a secondar mio Padre in tale esercizio, finchè giunto il tempo di passare al divisato Collegio, cambiai l’arte medica nello studio legale, come mi riserbo a dire nella Prefazione del Tomo sesto.