Opere (Lorenzo de' Medici)/V. Ambra

V. Ambra

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IV. Selve d'Amore - Selva seconda VI. Egloghe
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V

AMBRA

POEMETTO


[p. 291 modifica]                                                                           1           Descrizione dell’inverno.

     Fuggita è la stagion, che avea conversi
i fiori in pomi giá maturi e còlti:
in ramo piú non può foglia tenersi,
ma sparte per li boschi assai men folti
si fan sentir, se avvien che gli attraversi
il cacciator, e i pochi paion molti:
la fèra, se ben l’orme vaghe asconde,
non va secreta per le secche fronde.

2

     Fra gli arbor secchi stassi il lauro lieto
e di Ciprigna l’odorato arbusto:
verdeggia nelle bianche alpe l’abeto
e piega i rami giá di neve onusto:
tiene il cipresso qualche uccel secreto;
e con venti combatte il piú robusto:
l’umil ginepro colle acute foglie
la man non pugne altrui, chi ben le coglie.

3

     L’uliva in qualche dolce piaggia aprica
secondo il vento par or verde, or bianca:
natura in questa tal serba e nutríca
quel verde che nell’altre fronde manca.
Giá i pellegrini uccei con gran fatica
hanno condotta la famiglia stanca
di lá dal mare, e pel cammin lor mostri
nereidi, tritoni ed altri mostri.

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4

     Ha combattuto dell’imperio e vinto
la notte, e prigion mena il brieve giorno:
nel ciel seren d’eterne fiamme cinto
lieta il carro stellato mena intorno:
né prima surge, che in oceano tinto
si vede l’altro aurato carro adorno:
Orion freddo col coltel minaccia
Febo, se mostra a noi la bella faccia.

5

     Seguon questo notturno carro ardente
vigilie, escubie, sollecite cure,
e ’l sonno (e, benché sia molto potente,
queste importune il vincon spesso pure),
e i dolci sogni, che ingannan la mente,
quando è oppressa da fortune dure:
di sanitá, d’assai tesor fa festa
alcun, che infermo e povero si desta.

6

     Oh miser quel che in notte cosí lunga
non dorme e ’l disiato giorno aspetta:
se avvien che molto e dolce disio il punga,
quale il futuro giorno gli prometta!
E, benché ambo le ciglia insieme aggiunga,
e’ pensier tristi escluda e i dolci ammetta,
dormendo o desto, acciò che il tempo inganni,
gli par la notte un secol di cent’anni.

7

     Oh miser chi tra l’onde trova fuora
sí lunga notte assai lontan dal lito!
E ’l cammin rompe della cieca prora
il vento, e freme il mare un fèr muggito;
con molti prieghi e voti l’Aurora
chiamata, sta col suo vecchio marito:
numera tristo e disioso guarda
i passi lenti dalla notte tarda.

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8

     Quanto è diversa, anzi contraria sorte
de’ lieti amanti nell’algente bruma,
a cui le notte sono e chiare e corte,
il giorno oscuro e tardo si consuma.
Nella stagion cosí gelida e forte,
giá rivestiti di novella piuma,
hanno deposto gli uccelletti alquanto
non so s’io dica o lieti versi o ’l pianto.

9

     Stridendo in cielo i gru veggonsi a lunge
l’aere stampar di varie e belle forme,
e l’ultimo, col collo steso, aggiunge
ov’è quella dinanzi alle vane orme:
e, poiché negli aprichi lochi giunge,
vigile un guarda, e l’altra schiera dorme.
Cuoprono i prati e van leggier pe’ laghi
mille spezie d’uccei dipinti e vaghi.

10

     L’aquila spesso col volato lento
minaccia tutti, e sopra il stagno vola:
levonsi insieme e caccionla col vento
delle penne stridenti; e, se pur sola
una fuor resta del pennuto armento,
l’uccel veloce subito la invola;
resta ingannata, misera, se crede
andarne a Giove come Ganimede.

11

     Zeffiro s’è fuggito in Cipri, e balla
co’ fiori ozioso per l’erbetta lieta:
l’aria, non piú serena, bella e gialla,
Borea ed Aquilon rompe ed inqueta.
L’acqua corrente e querula incristalla
il ghiaccio, e stracca or si riposa cheta.
Preso il pesce nell’onda dura e chiara,
resta come in ambra aurea zanzara.

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12

     Quel monte che s’oppone a Cauro fèro,
che non molesti il gentil fior, cresciuto
nel suo grembo, d’onor, ricchezza e impero,
cigne di nebbie il capo giá canuto:
gli òmer cadenti giú dal capo altero
cuoprono i bianchi crini, e ’l petto irsuto
l’orribil barba, ch’è pel ghiaccio rigida:
fan gli occhi e ’l naso un fonte, e ’l gel lo infrigida.

13

     La nebulosa ghirlanda, che cigne
l’alte tempie, gli mette Noto in testa;
Borea dall’alpe poi la caccia e spigne;
e nudo e bianco il vecchio capo resta:
Noto sopra l’ale umide e maligne
le nebbie porta, e par di nuovo il vesta.
Cosí Morello irato, or carco or lieve,
minaccia al pian suggetto or acqua or neve.

14

     Partesi d’Etiopia caldo e tinto
Austro, e sazia le assetate spugne
nell’onde salse di Tirreno intinto:
appena a’ destinati luoghi giugne,
gravido d’acqua e di nugoli cinto
e stanco, strigne poi ambo le pugne:
i fiumi lieti contro all’acque amiche
escon allor delle caverne antiche.

15

     Rendon grazie ad Oceano padre, adorni
d’ulva e di fronde fluvial le tempie;
suonon per festa i rochi e torti corni:
tumido il ventre giá superbo s’empie:
lo sdegno, conceputo molti giorni
contro alle ripe timide, s’adempie;
spumoso ha rotto giá l’inimico argine,
né serra il corso dell’antico margine.

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16

     Non per vie torte o per cammino oblico,
a guisa di serpenti, a gran volumi
sollecitan la via al padre antico:
congiungon l’onde insieme i lontan fiumi;
e dice l’uno all’altro, come amico,
nuove del suo paese e de’ costumi:
cosí parlando insieme in strana voce,
cercon, né trovon, la smarrita foce.

17

     Quando gonfiato e largo si ristrigne
tra gli alti monti d’una chiusa valle,
stridon frenate, turbide e maligne
l’onde, e miste con terra paion gialle:
e grave pietre sopra pietre pigne,
irato a’ sassi dell’angusto calle:
l’onde spumose gira e orribil freme,
vede il pastor dall’alto e, sicur, teme.

18

     Tal fremito piangendo rende trista
la terra drento al cavo ventre adusta:
caccia col fumo fuor fiamma, acqua mista,
gridando, ch’esce per la bocca angusta,
terribile agli orecchi ed alla vista:
teme vicina il tuon alta e robusta
Volterra, e i lagon torbidi che spumano:
e piòve aspetta se piú alto fumano.

19

     Cosí crucciato il fèr torrente frende
superbo, e le contrarie ripe rode:
ma, poi che nel pian largo si distende,
quasi contento allora a pena s’ode:
incerto, se in su torna o se pur scende,
ha de’ monti distanti fatto prode;
giá vincitor, al cheto lago incede,
di rami e tronchi pien, montane prede.

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20

     A pena è suta a tempo la villana
pavida aprire alle bestie la stalla:
porta il figlio, che piange, nella zana:
segue la figlia grande, ed ha la spalla
grave di panni vili, lini e lana:
va l’altra vecchia masserizia a galla;
nuotono i porci e spaventati i buoi;
le pecorelle non si toson poi.

21

     Alcun della famiglia s’è ridotto
in cima delle case; e su dal tetto
la povera ricchezza vede ir sotto,
la fatica, la speme; e per sospetto
di se stesso non duolsi e non fa motto;
teme alla vita il cor nel tristo petto,
né delle cose car par conto faccia:
cosí la maggior cura ogni altra caccia.

22

     La nota e verde ripa allor non frena
i pesci lieti, che han piú ampli spazi:
l’antica e giusta voglia alquanto è piena
di veder nuovi liti: e, non ben sazi,
questo nuovo piacer vaghi gli mena
a veder le ruine e’ grandi strazi
degli edifizi, e sotto l’acqua i muri
veggon lieti ed ancor non ben sicuri.

23

     In guisa allor di piccola isoletta,
Ombrone, amante superbo, Ambra cigne;
Ambra non men da Lauro diletta,
geloso se ’l rival la tocca e strigne;
Ambra driade, a Delia sua accetta
quanto alcuna che stral fuor d’arco pigne;
tanto bella e gentil, ch’alfin li nuoce;
leggier di piedi e piú ch’altra veloce.

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24

     Fu da’ primi anni questa ninfa amata
dal suo Lauro gentil, pastore alpino,
d’un casto amor: né era penetrata
lasciva fiamma al petto peregrino.
Fuggendo il caldo, un dí nuda era entrata
nell’onde fredde d’Ombron, d’Apennino
figlio, superbo in vista e ne’ costumi,
pel padre antico e cento frati fiumi.

25

     Come le membra verginali entrorno
nell’acque brune e gelide, sentío,
e mosso dal leggiadro corpo adorno,
della spelonca uscí l’altèro iddio:
dalla sinistra prese il torto corno,
e nudo il resto, acceso di disio,
difende il capo inculto a’ febei raggi,
coronato d’abeti e montán faggi.

26

     E verso il loco ove la ninfa stassi,
giva, pian pian, coperto dalle fronde;
né era visto, né sentire i passi
lasciava il mormorio delle chiare onde.
Cosí vicin tanto alla ninfa fassi,
che giugner crede le sua trecce bionde,
e quella bella ninfa in braccio avere,
e nudo il nudo e bel corpo tenere.

27

     Sí come pesce, allor che incauto cuopra
il pescator con rara e sottil maglia,
fugge la rete, qual sente di sopra,
lasciando, per fuggir, alcuna scaglia;
cosí la ninfa, quando par si scuopra,
fugge lo iddio, che addosso se li scaglia:
né fu sí presta, anzi fu sí presto elli,
che in man lasciolli alcun de’ sua capelli.

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28

     E, saltando dell’onde, stringe il passo,
di timor piena, fugge nuda e scalza;
lascia i panni e li strali ed il turcasso;
non cura i pruni acuti o l’aspra balza:
resta lo dio dolente, afflitto e lasso:
pel dolor le man stringe, al ciel gli occhi alza,
maladice la man crudele e tarda,
quando i biondi capelli svelti guarda.

29

     E, seguendola allor, diceva: — O mano,
a svellere i bei crin presta e feroce,
ma a tener quel corpo piú che umano
e farmi lieto, oimè! poco veloce. —
Cosí piangendo il primo errore invano,
credendo almeno aggiugner con la voce,
dove arrivar non puote il passo tardo,
gridava: — O ninfa, un fiume sono ed ardo.

30

     Tu m’accendesti in mezzo alle fredd’acque
il petto d’un ardente disir cieco:
perché come nell’onde il corpo giacque,
non giace, che staria meglio, con meco?
Se l’ombra e l’acqua mia chiara ti piacque,
piú bell’ombra, piú belle acque ha il mio speco.
Piaccionti le mie cose, e non piaccio io:
e son pur d’Apennin figliuolo, e dio. —

31

     La ninfa fugge, e sorda a’ prieghi fassi:
a’ bianchi piè aggiugne ale il timore.
Sollecita lo dio, correndo, i passi,
fatti a seguir veloci dall’amore;
vede da pruni e da taglienti sassi
i bianchi piè ferir con gran dolore;
cresce il disio, pel quale e ghiaccia e suda,
vedendola fuggir sí bella e nuda.

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32

     Timida e vergognosa Ambra pur corre;
nel corso a’ venti rapidi non cede;
le leggier piante sulle spighe porre
potria, e sosterrieno il gentil piede:
vedesi Ombrone ognor piú campo tôrre,
la ninfa ad ogni passo manco vede:
giá nel pian largo tanto il corso avanza,
che di giugnerla perde ogni speranza.

33

     Giá pria per li alti monti aspri e repenti
venía tra sassi con rapido corso:
i passi a lei manco spediti e lenti
faceano a lui sperar qualche soccorso:
ma giunto, lasso, giú ne’ pian patenti,
fu messo quasi al fiume stanco un morso:
poi che non può col piè, per la campagna
col disio e cogli occhi l’accompagna.

34

     Che debbe far l’innamorato dio,
poiché la bella ninfa piú non giugne?
Quanto gli è piú negata, piú disio
lo innamorato core accende e pugne.
La ninfa era giá presso ove Arno mio
riceve Ombrone e l’onde sue congiugne:
Ombrone, Arno veggendo, si conforta,
e surge alquanto la speranza morta.

35

     Grida da lungi: — O Arno, a cui rifugge
la maggior parte di noi fiumi tòschi,
la bella ninfa, che come uccel fugge,
da me seguíta in tanti monti e boschi,
sanza alcuna pietate il cor mi strugge,
né par che amore il duro cor conoschi:
rendimi lei e la speranza persa,
e il leggier corso suo rompi e intraversa.

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36

     Io sono Ombron, che le mia cerule onde
per te raccoglio; a te tutte le serbo,
e fatte tue diventon sí profonde,
che sprezzi e ripe e ponti, alto e superbo:
questa è mia preda; e queste trecce bionde,
quale in man porto con dolore acerbo,
ne fan chiar segno: in te mia speme è sola:
soccorri presto, ché la ninfa vola. —

37

     Arno, vedendo Ombron, da pietá mosso,
perché il tempo non basta a far risposta,
ritenne l’acqua; e, giá gonfiato e grosso,
da lungi al corso della bell’Ambra osta.
Fu da nuovo timor freddo e percosso
il vergin petto, quanto piú s’accosta:
drieto Ombron sente, e innanzi vede un lago,
né sa che farsi il cor gelato e vago.

38

     Come fèra cacciata e poi difesa,
da’ can fuggendo la bocca bramosa.
fuor del periglio, giá la rete tesa
veggendo innanzi agli occhi, paurosa,
quasi giá certa dover esser presa,
né fugge innanzi o indrieto tornar osa,
teme i can, alla rete non si fida,
non sa che farsi, e spaventata grida;

39

     tal della bella ninfa era la sorte:
da ogni parte da paura oppressa,
non sa che farsi se non desiar morte;
vede l’un fiume e l’altro che s’appressa;
e disperata allor gridava forte:
— O casta dea, a cui io fui concessa
dal caro padre e dalla madre antica,
unica aiuta all’ultima fatica;

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40

     Diana bella, questo petto casto
non maculò giamai folle disio:
guardalo or tu, perch’io ninfa non basto
a dua nimici; e l’uno e l’altro è dio.
Col disio del morir m’è sol rimasto
al core il casto amor di Lauro mio:
portate, venti, questa voce estrema
a Lauro mio, che la mia morte gema. —

41

     Né eron quasi della bocca fòre
queste parole, che i candidi piedi
fûrno occupati da novel rigore:
crescergli poi e fargli un sasso vedi:
mutar le membra e ’l bel corpo colore,
ma pur, che fussi giá donna ancor credi:
le membra mostran, come suol figura
bozzata e non finita in pietra dura.

42

     Ombron pel corso faticato e lasso,
per la speranza della cara preda
prende nuovo vigor e stringe il passo,
e par che quasi in braccio aver la creda:
crescer veggendo innanzi agli occhi il sasso,
ignaro ancor, non sa d’onde proceda:
ma poi, veggendo vana ogni sua voglia,
si ferma pien di maraviglia e doglia.

43

     Come in un parco cervia o altra fèra,
ch’è di materia o piccol muro chiuso,
sopraffatta da’ can, campar non spera
vicina al muro, e per timor lá suso
salta e si lieva innanzi al can leggiera;
resta il can drento misero e deluso;
non potendo seguir ov’è salita,
fermasi, e guarda il loco ov’è fuggita;

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44

     cosí lo dio ferma la veloce orma;
guarda pietoso il bel sasso crescente,
il sasso, che ancor serba qualche forma
di bella donna, e qualche poco sente:
e come amore e la pietá lo informa,
di pianto bagna il sasso amaramente,
dicendo: — O Ambra mia, queste son l’acque,
ove bagnar giá il bel corpo ti piacque.

45

     Io non arei creduto, in dolor tanto,
che la propria pietá, vinta da quella
della mia ninfa, si fuggissi alquanto
per la maggior pietá d’Ambra mia bella:
questa, non giá la mia, move in me il pianto.
È pur la vita triste e meschinella,
ancor che eterna: quando meco penso,
è peggio in me che in lei non aver senso.

46

     Lasso! ne’ monti miei paterni eccelsi
son tante ninfe, e sicura è ciascuna:
fra mille belle la piú bella scelsi,
non so come; ed amando sol quest’una,
primo segno d’amore i crini svelsi,
e caccia’la dell’acqua fresca e bruna,
tenera e nuda: poi, fuggendo esangue,
tinse le spine e i sassi il sacro sangue.

47

     E finalmente in un sasso conversa
per colpa sol del mio crudel disio,
non so, non sendo mia, come l’ho persa,
né posso perder questo viver rio:
in questo è troppo la mia sorte avversa,
misero essendo ed immortale iddio;
ché, s’io potessi pure almen morire,
potria il giusto immortal dolor finire.

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48

     Io ho imparato come si compiacci
a donna amata ed il suo amor guadagni,
che a quella che piú ami piú dispiacci.
O Borea algente, che gelato stagni,
l’acqua corrente fa s’induri e inghiacci,
che pietra fatta la ninfa accompagni.
Né ’l sol giamai co’ raggi chiari e gialli
risolva in acqua i rigidi cristalli. —