Occhi e nasi/Gli ultimi fiorentini/Cotti come tegoli
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Cotti come tegoli.
Ma l’amico Pistagna non può finire il discorso, perchè tutt’a un tratto la porta del Caffè si spalanca violentemente, e un grosso fagotto di cenci e di carne umana viene a cascare lungo disteso in mezzo alla bottega.
— Per mutare, gli è l’amico Frusone! — gridano ridendo tutti quelli che sono nel Caffè: e alzato di peso quel fagotto, lo ajutano a mettersi a sedere.
— O come l’è andata? — gli domanda Pistagna, che s’è di già seduto dinanzi a lui.
— Gua’: l’è, stata una buccia di fico! Accidenti alle buccie! da casa a qui, n’ho trovate cinque.
— Ti se’ fatto male?
— Nulla. L’è stata più la paura che altro: e siccomechè ho sempre sentito dire che quando s’ha una paura, bisogna beverci sopra, da’ retta, Nanni, portami un poncino.... —
E mentre dice così, Frusone, col suo capo appoggiato al muro, ride, ride, ride tutto contento; e nel ridere gli gocciolano giù dalla bocca tre rigagnoli di diverso colore, uno rosso di vino, uno verdastro d’assenzio e uno bianco d’acquavite.
Dopo che Frusone ha finito d’ingoiare il ponce, perde mezz’ora buona a cercare nelle tasche tre soldi per pagarlo; e pagato che l’ha, fa per rizzarsi: ma non gli riesce. Pistagna, sebbene stia male in gambe anche lui, lo ajuta: e tutt’e due, appuntellandosi l’uno con l’altro, escono dal Caffè. E camminando là là rasente al muro raggiungono a un po’ per volta quell’estremo grado d’ondulazione, durante il quale, si direbbe che il corpo umano, ribellandosi alle leggi eterne dell’equilibrio, e rinnegando i primi rudimenti della geometria, si studia di dimostrare che la linea curva è la linea più corta, per andare a cascare in mezzo alla strada.
Difatti nello scendere dal marciapiede, Frusone misura male il passo, e giù!
— Accidenti alle bucce di fico! — grida battendo la groppa sul lastrico.
— Che bucce!... qui non c’è bucce — dice Pistagna, chinandosi e guardando per terra.
— Eppure, una buccia la ci dev’essere.
— Ti dico che la non c’è.
— Allora vuoi dire che te la sei messa in tasca.
— Sai la buccia qual’è? Egli è che tu hai bevuto due libbre di zozza; si sente dal fiato. A starti accosto, tu pai un lume a petrolio.
— Non dico di no: ma sai chi è che mi ha dato alla testa? Egli è che nell’ultimo bicchierino il ragazzo di Nanni mi ci ha messo due gocciole d’acqua. Vedi, per me non c’è una cosa che mi faccia ubriacare come l’acqua imputabile.
— Potabile, ignorante!
— Potabile o imputabile l’è lo stesso: io ho sempre il vizio di metterei un g di più. Vien via, Pistagna: dammi una mano, mi vo’ rizzare.
— Ti posso dare un piede. Se mi chino per darti una mano, non mi rizzo più neanch’io.
— Allora fammi un piacere: raccattami il sigaro, che m’è cascato là nel rigagnolo, e mettimelo in bocca.
— (raccattando il sigaro). Da’ retta: gli è cascato nel fradicio.
— Nel fradicio?... che rob’ella?
— Mi pare, all’odore che la sia la saponata del parrucchiere qui di faccia. Che te ne giovi?
— Sicuro, eh! Anche la saponata l’è una creatura di Dio, ne convieni? (sdraiandosi supino sul lastrico). Guarda come gli è bello il cielo del firmamento! Vedi Pistagna: tu potresti metterti a sedere costa sul marciapiede, e raccontarmi la storia dell’altra sera, quando andasti al teatro. Dimmi, tu sarai andato in lubbione, eh?
— In lubbione! To’ madre misera! Io per tu’ regola, quando vado al teatro, vado sempre in platea, come fanno i signori.
— Vien via; ma ti pajon musi codesti da rigirarsi due lire per andare alla musica?
— Già si comincia a dire che al teatro Pagliano io non spendo nulla.
— O com’è che tu passi a scapaccione?
— Gli è più di venti anni che sono amico del Professore.
— Di chi Professore?
— Gua’: di Pagliano, di quello del siroppo.
— O perchè tu eri amico?
— Perchè quando facevo il parrucchiere, lo servivo io.
— Dunque l’hai conosciuto bene?
— Figurati! Gli ho tinto la barba per quindic’anni di filo.
— O con che gliela tingevi?
— Con un po’ di cera da scarpe sciolta nell’olio di mandorle dolci; gli è l’unico cosmetico che renda il morato ai capelli e non pregiudichi alla freschezza dei peli del bulbo.
— Gli sta bell’e bene! Dimmi, Pistagna: o hai fatto anche il parrucchiere?
— Io? Io, per tua regola, in questo mondo, ho fatto un po’ di tutto. Non mi manca che fare il ministro di finanza, e spero bene.
— Ministro, te? o dove l’hai il talento?
— Bada lì: che eredi che ci voglia un gran talento a finire i quattrini degli altri?
— Vien via, non ti compromettere: dammi piuttosto una mano, perchè io, da me, non mi posso rizzare.
— O io?
— Dimmi, Pistagna, non saresti per caso un po’ briaco anche te?
— L’hai trovato il tuo!
— Caro mio: tu m’ha’ detto di aver bevuto otto poncini, e otto poncini l’è parecchia roba!
— Io, per tua regola, ne bevo anche cento e non mi fanno nulla. Sai cos’è che m’ha fatto male? il fresco della sera. Quando io ho bevuto dimolto, bisognerebbe che stessi fermo, come l’olio. Se faccio tanto di muovermi, la testa comincia a frullare e i ginocchi si ripiegano. Già ti dirò che, anche da ragazzo, sono stato sempre debole di ginocchi. L’è una malattia di famiglia: anche il cavallo di mio padre, che faceva il fiaccherajo, avea questo mancamento... —
In questo mentre Pistagna, sentendo il rumore di un legno di vettura, che viene verso di loro, grida all’amico sempre disteso nella strada:
— Frusone, tira indietro le gambe, se ti preme il tacco delle scarpe.
— Ohe! — gridò Frusone al fiaccherajo — chi sei? Guarda guarda chi gli è! gli è l’amico Bobi! —
Il fiaccherajo, riconosciuta la voce de’ suoi amici, grida ridendo dall’alto della cassetta:
— O ragazzi! icchè vo’ fate costì per terra?
— Gua’; e’ si fa i briachi. —
Bobi carica i due amici nella vettura, e accorgendosi che sono cotti tutti e due come tegoli, pensa bene di portarli a bere da un altro vinajo.