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Cotti come tegoli.


Ma l’amico Pistagna non può finire il discorso, perchè tutt’a un tratto la porta del Caffè si spalanca violentemente, e un grosso fagotto di cenci e di carne umana viene a cascare lungo disteso in mezzo alla bottega.

— Per mutare, gli è l’amico Frusone! — gridano ridendo tutti quelli che sono nel Caffè: e alzato di peso quel fagotto, lo ajutano a mettersi a sedere.

— O come l’è andata? — gli domanda Pistagna, che s’è di già seduto dinanzi a lui.

— Gua’: l’è, stata una buccia di fico! Accidenti alle buccie! da casa a qui, n’ho trovate cinque.

— Ti se’ fatto male?

— Nulla. L’è stata più la paura che altro: e siccomechè ho sempre sentito dire che quando s’ha una paura, bisogna beverci sopra, da’ retta, Nanni, portami un poncino.... —

E mentre dice così, Frusone, col suo capo appoggiato al muro, ride, ride, ride tutto contento; e nel ridere gli gocciolano giù dalla bocca tre rigagnoli di diverso colore, uno rosso di vino, uno verdastro d’assenzio e uno bianco d’acquavite.

Dopo che Frusone ha finito d’ingoiare il ponce, perde mezz’ora buona a cercare nelle tasche tre soldi per pagarlo; e pagato che l’ha, fa per rizzarsi: ma non gli riesce. Pistagna, sebbene