Novellette e racconti/XXVIII. Nuova moda con che una donna rubò un'altra
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Nuova moda con che una donna rubò un’altra
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XXVIII.
Nuova moda con che una donna rubò un’altra.
Val più un’oncia di voglia in corpo, di mille libbre di senno e di ragioni. Quante volte si sono veduti truffatori andare intorno, e, chi con un artificio, chi con un altro, trarre i danari delle mani al prossimo! Costoro hanno, fra le altre, una lusinga, che ti mettono in isperienza di utilità o di piacere: se questa ti entra nelle viscere, ti spogli in camicia per dar quanto hai a così fatti promettitori. Nei passati dì nella contrada di San Trovaso, se ne vide questo nuovo esempio. Andò una donna co’ capelli arruffati e con un’aria di sibilla camminando per quei luoghi, e veduta una femmina sull’uscio, che forse l’avea appostata avanti per gittar l’amo, le si fece all’orecchio, e spalancando gli occhi come se la fosse stata invasata, Io ti saluto, le disse, o fortunatissima donna. Odi pazzia, diceva l’altra: io fortunata! che ho sì e sì: e stringevasi nelle spalle, rammentando tutti i suoi guai. Non vi lagnate, no, diceva l’astutaccia, che voi avete in casa di che rimediare ad ogni malanno. Sorella mia, voi non lo sapete, ma negli antichi tempi fu qui in casa vostra nascosto un tesoro, e io so dove giace. Tesori di stracci, diceva l’altra: io so dove ne sono in casa mia, altro no, e io credo certamente, o buona donna, che voi farnetichiate; ma così dicendo si vedea negli occhi, che la cominciava ad assaggiare e a bere il veleno della lusinga, come appunto quando un giovane dice ad una fanciulla che le vuoi bene, che questa mostra di non lo credere, ma ghigna e fa due occhiolini che dicono il contrario. Se ne avvide subito la trista che colei avea ingozzato l’amo, ed empiendole il capo di urne d’oro ripiene, che risplendeva qual sole, e nominando dobloni, zecchini e verghe, facendole a parole ogni cosa toccar con mano, tanto le ravviluppò il cervello e l’animo, che seco in casa la condusse. Quivi, con licenza della padrona, borbottando non so quali parole, torcendo gli occhi e facendo pentacoli e sigilli con un carbone spento sulla terra, che l’altra ne spiritava, le disse: Qui è il tesoro, e di qua dee uscire la ricchezza e la beatitudine vostra. Come si farà? diceva l’altra. Udite, rispondeva la tesoriera: voi sapete che la calamita ha questa virtù che attragge a sè il ferro, l’ambra la paglia, e la tromba del pozzo l’acqua: il Cielo ha dato questa virtù a molte cose di attrarne a sè delle altre; ma soprattutto ha conceduto la facoltà all’oro di trarne a sè dell’altro. I danari fanno danari, dicono le genti, e credono che ciò sia perchè un ricco abbia maggior fortuna o più cervello di un altro, ma non è vero: ciò avviene, perchè gli zecchini che sono in casa sua ne tirano a sè per occulta qualità di natura degli altri. Ma tutti non sanno i segreti di natura, perchè non hanno studiato come io, che, qual mi vedete, non fo mai altro dì e notte, che pensare a tale attrazione dell’oro. Sicchè, per venire al punto, io farò qui una buca in terra, e se voi avete oro da mettervi dentro, ch’io lo vi metterò e coprirò sotto agli occhi vostri; questo in capo a tre dì chiamerà su l’altro dalle viscere della terra, dov’è celato, e vedrete tutto questo luogo fornito di urne di zecchini nuovi e ardenti senza verun’altra vostra fatica. Io ho un pajo di smaniglie, disse l’altra, ed eccole. Presele in mano la valente donna, e vedutele, disse che poco oro era quello e che poco sarebbe stato l’oro attratto, e che quanto più stato fosse, maggior sarebbe stata la copia dell’oro trovato. Di che l’altra, già ubbriaca per la dolcezza del guadagno, corse ad alcune sue amiche, e con vari colori e pretesti ebbe da loro non so quali altre paja di smaniglie, e trionfando ritornò alla sua Fata. Questa allora tutte prendendole, e sotto gli occhi di lei nella buca apparecchiata calandole, le coperse coi più brutti visacci e col più pazzo stralunar di occhi che mai si vedesse; indi, levatasi di là con viso che parea impazzata, le disse: Guai a te, o donna, se di tutto ciò che si è fatto e hai veduto ne fai parola ad altrui o qua discopri se non sono prima passati i tre giorni; tutta la casa tua sarebbe incendio e carboni, e tu medesima ne verresti per l’aria portata. In capo a tre giorni qui mi rivedrai e mi darai premio di mie fatiche, non chiedendoti io per ora cosa veruna: mi farai allora quella parte che tu vorrai de’ trovati tesori: per ora, addio: e così detto, le si tolse dinanzi.
Rimase la buona femmina prima attonita e balorda, poi a poco a poco tutta ripiena di sì dolce pensiero e di speranza. Chi può dire quante volte al dì ne andava pian piano a vedere se la terra bolliva e se ne spuntavano le urne? La notte o poco chiudeva gli occhi, o sempre sognava oro e argento. Lagnavasi il marito suo che la minestra era sciocca o tutta sale, e non sapea ch’ella facea tutto sopra pensiero e che avea sempre il cuore al sepolcro delle smaniglie. Molti erano anche i conti che faceva in suo cuore: dove ella avesse a riporre tant’oro, in che ne dovesse spendere parte, quanto investirne, qual grata sorpresa farne al marito, come beneficarne i parenti suoi, e far con esso dispetto a certe donnicciuole sue nemiche. Fra questi pensieri, ecco il terzo dì e l’ora assegnata: le batte il cuore, le tremano sotto le ginocchia, mentre che va alla buca: scopre che la mano parea parlitica; guarda, ed oh spettacolo! la trova vôta. Forse le urne saranno sotto le panche, saranno qua, saranno colà: non è vero. Quindi le subite strida, i pianti, i lamenti, il mettersi le mani ne’ capelli. Accorrono le altre donne, fra le quali quelle che aveano prestate le smaniglie; sanno il caso: eccoti nuovi guai: chi la chiama pazza, chi rivuole il suo. Viene a casa il marito, ode la faccenda come sta, e non bada al suo buon cuore e all’intenzione ch’ella avea di arricchirlo, ma la concia con le pugna: e intanto la maladetta Fata, che con la destrezza delle mani trafugò l’oro nell’atto del riporlo, insegna ch’egli è meglio stentare con quel poco che si possiede, che perdere anche quello per la speranza del meglio.