Novellette e racconti/XLIV. Spavento incusso ad un Paladino da un uomo pacifico
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Spavento incusso ad un Paladino da un uomo pacifico
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XLIV.
Spavento incusso ad un Paladino
da un uomo pacifico.
Dice alle volte alcuno: Egli non mi è accaduto mai cosa veruna da pericolare. Sta in cervello se non vuoi incontrare il malanno, e si danno buoni consigli; e tuttavia alle volte ti avvengono cose, delle quali non pare che l’uomo possa guardarsi, come poche sere fa succedette quasi ad un operajo che, andando pe’ fatti suoi, fu ad un dito per rovinarsi senza sapere la cagione. Passava costui per la Merceria, ritornando dal suo lavoro a passo a passo per andarsene a casa verso la mezzanotte. Quando fu presso alla Calle degli Stagneri, si abbattè a due compagni che ne venivano insieme, l’uno de’ quali affacciatosi a lui senza ch’egli nemmeno guardato l’avesse, alzategli le mani agli occhi, grida: Olà, che fai tu, che fai tu? dice e ripete queste parole con un tuono che parea lo volesse inghiottire. Il buon uomo che sapea di non fare cosa veruna, va per li fatti suoi e non risponde. L’altro rifà il giuoco con la stessa furia; e questi mutolo, e va. L’arrabbiato prendelo per un braccio, e dicendo le stesse parole, gli da una scossa sì gagliarda che parve una trottola sferzata dalla stringa, tanto andò intorno. L’operajo si riscalda e gli risponde bruscamente: l’altro non bada alla risposta e gli dà un’altra scossa; ma non sendogli riuscito di farlo aggirare la seconda volta come la prima, arse di sdegno, e afferrandolo ad un braccio, gli diè d’urto e lo confinò alla bottega del Cardinale, replicando sempre la stessa domanda e alzandogli le mani alla faccia con sì poca creanza, che gli scorticò una parte del naso con l’ugna, tanto che il pover’uomo sentì un acuto dolore e non arse meno di collera di quello che gli dolesse. Di che finalmente risolutosi che la pazienza e lo sfuggire le brighe fosse atto da poltrone, levata alta una mano, con la quale era usato a tirare la pialla e la sega, con certi calli di porfido fa piombare uno schiaffo così ben misurato sulle guance dell’insolente avversario, che lo fe’ andare qua e là come un tordo impaniato fino alla scala della chiesa di S. Salvatore, dove finalmente cadde in terra stordito che parea ebbro. Alcuni che si erano raunati all’imboccatura della Calle degli Stagneri per vedere la fine della faccenda, udito il romore della ceffata, che suonò come un timpano, sparirono in un attimo. Il compagno di colui ch’era caduto, quasi volesse difendere e vendicare l’amico della gotata, pose mano alla scarsella e trasse o fece le viste di trar fuori l’arme; onde l’operajo veduto l’atto, e non avendo seco nè i suoi ferri nè altro, e forse affidandosi nelle salde nocca delle dita sue, pose mano ad un certo passetto da misurare, di quelli che si aprono e serrano e hanno la lunghezza di due piedi e mezzo, e facendo con esso mostrare di avere un coltello, cominciò a fare con le parole da Orlando. Se non che l’armato, o fosse la carità o altro che ne lo movesse, si pose in atto di soccorrere il compagno stramazzato in terra, che non si movea, e chiamavalo perchè si levasse. Intanto sopravvennero persone; onde l’operajo, il quale non facea valenterie per altro che per difendersi, veduto il nemico occupato intorno allo stordito e atterrato dalla ceffata, e udendo le genti che domandavano, Ch’è stato? parendogli di aver vinta la guerra, e non volendo altro arrischiarsi, ripose l’arme sua da misurare, e cheto cheto fra uomo e uomo ne andò alla volta di casa sua, ringraziando il Cielo di aver salvata la vita, e guardandosi sempre dietro di qua e di là, chè gli parea di essere inseguito dai due compagni, finchè aperse l’uscio e fu dentro.