Novellette e racconti/LXXXVI. Storia vera

LXXXVI. Storia vera

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LXXXV. Trappola tesa ad un Oste LXXXVII. Storia di due Infermi
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LXXXVI.


Storia vera.


Racconterò di uno il quale poco mancò che non si stimasse morto, quantunque fosse sano e gagliardo quanto potea essere; ma perchè egli avea in cuore di essere ammalato, stava sempre in orecchi, quasi le campane suonassero il suo passaggio da questa all’altra vita; e tutti quelli che vedea, gli parea che fossero medici i quali gli dessero la finale sentenza. Sa ognuno che, quando è qualche influenza di malattia in un paese, ci sogliono essere di quelli a’ quali pare che il tirare il fiato, l’aprire gli occhi, e fare ogni altro più semplice atto, la tiri loro nelle vene; e di tempo in tempo sotto il mantello si mettono la mano al polso per sentire se batte più spesso, o si provano se respirano liberamente, e guardansi le ugne se imbiancano, allividiscono, o per ogni menomo calore o freddo delle carni arguiscono di essere agonizzanti, e cominciano a parlare con una vocina che indica la fine di loro vita. Di questi tali fu uno ne’ passati dì, il quale venuto da una terra non molto lontana in Venezia per godersi il carnovale, e andando perciò qua e colà mascherato, si abbattè a questi tempi in cui l’influenza de’ reumi, in molti corpi incrudelendo, lungamente gli tiene infermi e talora anche toglie loro la vita. Per la qual cosa incominciando grandemente a dubitare del fatto suo, e parendogli ad ogni poco che la gocciola del reuma gli stillasse dal capo al petto e lo facesse affogare, si diede con grandissimo studio a custodirsi, esaminando attentamente il sole e l’aria; e secondo le ore del giorno accrescendo e minorando i vestiti, anzi tenendo quasi la bilancia in mano per pesare la notte le coltrici del letto e le berrette che si metteva in capo; delle quali ne avea parecchie sul capezzale, per iscambiarle secondo che l’ammoniva la fantasia che gli abbisognasse. In così fatta guisa [p. 194 modifica]guardandosi, non si risvegliava mai la mattina, che non si provasse due o tre volte a tossire, per vedere s’egli avea il petto aggravato, o se gli faceano male le coste a quell’impeto o scuotimento della tosse; e comechè niun male avesse in effetto, pure si stava qualche po’ di tempo in dubbio, e fra il sì ed il no, quasi prestandosi orecchio da sè medesimo per iscoprire la sua magagna. Finalmente rassicuratosi appena, ordinando prima al cameriere che fossero ben chiusi usci e invetriate, non senza riscaldarsi lo stomaco con un immenso bicchiere di acqua calda e quasi bollente, si levava dal letto, e a poco a poco dando aria alla stanza, poscia passeggiando per la sala, indi scendendo le scale, usciva di casa col fazzoletto alla bocca e al naso con tanto timore, che parea adombrato. Il tossire e lo starnutare delle genti erano a lui pugnalate nel petto, perchè facea subito la comparazione di sè medesimo con altrui, e diceva tra sè: Ohimè misero! fra poco io son certo che sarò infreddato; e se, mentre che gli si volgeva pel capo questo pensiero, vedeva scritto sulle botteghe il nome e il cognome di qualche uomo passato all’altra vita, lo prendeva per pessimo augurio, e gli parea di leggere il suo proprio nome; chiudeva gli occhi, e passava via di volo. Mentre che andava in tal guisa uccidendosi da sè a mente, eccoti che una mattina si desta, che la gocciola del capo gli solleticava la gola; onde il petto non accostumato difendendosi, incominciò a tossire; di che divenuto tremante come una foglia e pallido come bossolo, diceva: Ecco l’ora mia; e fosse o il timore, o che veramente il male gli si aggravasse alcun poco, si sentiva un cerchiellino intorno al capo,’gli occhi nel girare gli dolevano e gli pareano diventati di osso, e quel che peggio fu, perchè si desse per ispacciato, in sul far della sera, il polso acquistò qualche alterazione. Visitavanlo le persone di casa, e cercavano con le buone parole di confortarlo, dicendogli che quella piccola febbretta, se pure con tal nome dovea chiamarsi, fra poco sarebbe stata la [p. 195 modifica]sua salute, essendo essa con la sua agitazione necessaria per isciogliere quell’umore, il quale, aiutato dal bere caldo e dallo starsi a letto, sarebbe in breve tempo svanito. Ma non prendendo egli veruna speranza dagli altrui conforti, richiese che incontanente venisse chiamato il medico; al quale, venuto che fu, raccontò tutt’i disordini della passata sua vita, e ripose nelle mani di lui il suo corpo, pregandolo che gli parlasse schiettamente e ne l’avvisasse alla libera del pericolo suo, acciocchè avesse tempo di morire come uomo dabbene. Il medico, toccatogli il polso e rassicuratolo quanto potè che il male non era da esequie, gli scrisse una breve ricetta, e ordinategli non so quante ventose, se ne andò a’ fatti suoi, lasciandolo con qualche buona speranza di sua salute. In effetto, poichè egli ebbe data esecuzione a quanto gli era stato ordinato dal medico, sentissi a poco a poco alleggerire il male; e statosi a quel modo due dì, non sentiva più la molestia della tosse, e già il polso quieto, tocco più volte da lui, gli avea rassicurato lo spirito; sicchè pensava la mattina vegnente di levarsi e di star a sedere dopo di aver pranzato nella sua stanza. Ma fortuna, che spesso vuol prendersi giuoco de’ paurosi, fece nascere un caso, per cui gli entrò in corpo un nuovo timore, e tale, che a grandissima fatica si potè poi fargli credere che non fosse giunto agli ultimi momenti del viver suo. Erano già passate le ventiquattr’ore, ed egli con un piccolo lumicino in un cantuccio della stanza si stava nel letto, tutto soletto e con le coltrici fino agli orecchi, considerando la sua passata burrasca, quando vide apparire all’uscio accompagnato da tre gondolieri un uomo, e levando gli occhi a lui, vide ch’egli avea in capo una parrucca a tre nodi, la quale aggiunta alla gravità dell’aspetto gli dava indizio che fosse persona di grande affare; onde salutatolo col chinare delle ciglia, stava attendendo che gli chiedesse e che volesse da lui. Ma ben gli si agghiacciò il sangue nelle vene, quando il gravissimo uomo, accostatosi al suo letto, senza punto dare indizio di [p. 196 modifica]chi egli fosse, disse: Qua il polso. Il povero convalescente, credendo che fosse l’archimandrita de’ medici, il quale udito il suo pessimo stato fosse venuto a lui per vedere se l’arte avesse più segreto che gli potesse giovare, trasse fuori il braccio col tremito della morte, e cheto cheto attendeva dal medico maggiore la sentenza del suo stato. Il toccatore del polso dappoichè egli ebbe assecondate le pulsazioni con altrettanti cenni di capo, lasciato stare il braccio e fattoglielo coprire, e dettogli un aforismo d’Ippocrate intorno alle febbri procedenti da catarro, gli fece varie interrogazioni, indi commendata molto l’assistenza e la diligente cura fatta dal medico del suo male, e principalmente l’ordinazione delle ventose, disse: Qua l’altro polso. Il pover’uomo, che ancora non sapea a que’ generali ragionamenti qual fosse la decisione del nuovo dottore, con le lagrime agli occhi e freddo come pietra per la paura cavò fuori il braccio sinistro, e glielo diede, con un profondissimo sospiro, nelle mani, dicendo fra sè: Di qua pende il giudizio della mia vita. Speriamo bene, disse il valentuomo toccando; speriamo bene: la signoria vostra abbiasi custodia, ch’io la lascio con la buona notte. Così detto, senza altro ragionare, se ne andò a’ fatti suoi, e lasciò il pover’uomo sì concio l’animo, che gli parea di vedersi intorno le torce. Volle la sua buona ventura che uno di casa entrò allora nella sua stanza, a cui quasi singhiozzando raccontò l’apparizione del nuovo medico; e raccomandavasi che alcuno andasse pel notajo che volea disporre delle cose sue; quando gli fu detto che quegli non era medico, ma uno speziale, il quale per amore che avea a quella famiglia, quando udiva che quivi erano infermi, andava spontaneamente a visitarli; e perchè egli nol volea credere, furono quivi chiamati quanti erano in casa per testimonj, i quali affermandogli che così era, a grandissima fatica gli poterono trarre il conceputo timore di corpo, e fargli credere ch’egli era interamente guarito.