Novellette e racconti/LXXXVII. Storia di due Infermi

LXXXVII. Storia di due Infermi

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LXXXVII.


Storia di due Infermi.


Rex Æsculapi, quam habes potentiam!

Aristoph. in Pluto.


Oh! Esculapio re, quanto è grande la tua potenza!


Sono alquanti mesi che nella città in cui mi ritrovo, corre una infezione di febbri di così pessima ragione, che in pochi giorni struggono e mettono nelle mani dei beccamorti chi ne viene assalito; e per quanto i medici vi abbiano fatto accurati esami e diligenti studj sopra, non si potè mai venire a capo di far meglio. Ciascheduno di essi dice mille buone ragioni intorno ai principj di questa malattia, applicano rimedj secondo tutte le regole dell’arte loro: non dimenticano sentenza veruna antica nè moderna per corroborare le loro opinioni, tanto che non si sa più che dire, se non che gli uomini muojono a torto e per ostinazione. Sperasi tuttavia che una sperienza veduta questi giorni possa finalmente arrecare quel giovamento che si cerca, e confortare le persone le quali veramente sono atterrite, e di tempo in tempo si mettono la mano al polso, e ad ogni menoma agitazione di quello si danno per sotterrate.

Due persone, quasi della medesima età e complessione, vennero ne’ passati giorni da questa mala generazione di febbre assalite. L’uno è un buon uomo di lettere, il quale, secondo la usanza della letteratura, non è molto agiato de’ beni di fortuna; e senza punto pensare di quello che può avvenire domani, si appaga del suo pane cotidiano, dicendo che ogni dì lo arreca a chi lo spera. Il secondo è un certo uomo, il quale nel principio di sua vita fu castaldo, e di tempo in tempo accrebbe le facoltà colla industria, e ajutato parte dalla prospera fortuna e parte da una profondissima aritmetica, sottopose i suoi padroni, e cominciò a grandeggiare e a spendere, [p. 198 modifica]avendo fondata una buona e sicura rendita, e posto da canto una miglior quantità di danari. Il povero letterato côlto dalla febbre si coricò sopra il suo letticciuolo, in una cameretta a letto, che facea accoglienza gratissima ora a’ venti del mezzodì, ora a quelli del settentrione, e in fine a quanti ne mandava il cielo; e standosi ravviluppato il capo in certe sue coltrici, rinforzate da una gabbanella che vi mettea sopra, mandò per un medico, il quale mossosi a stento, pure finalmente vi giunse quando appunto la maggior furia della febbre lo facea vaneggiare. Mentre dunque che il medico gli tenea la mano al polso, l’infermo, che poco prima avea letto non so se Dante o il Petrarca, ed era entrato in farnetico con l’armonia di que’ versi nel cervello, cominciò a dire: L’un’arte deve giovare all’altra. Se voi fate sì ch’io guarisca ed esca di questo letto, vi do parola che voi ne avrete in guiderdone da me una delle più belle e più fiorite ghirlande d’Elicona, e ch’io vi farò immortale. Apollo è nume dell’uno e dell’altro di noi: e se io non ho nè oro, nè argento, sarò uomo da innalzarvi fino alle stelle. Il medico, udite queste parole, e avvedutosi che potea esser vero quanto gli promettea, perchè nella stanza non si vedea altro che le muraglie, una sedia zoppa di noce, e alquante dozzine di libri mezzi nudi che in sulle schiene mostravano la colla e le stringhe, prese per ispediente di non fare per allora novità veruna e di stare a vedere; affermando ad alcuno, che quivi era più per caso che per altro, ch’egli vi sarebbe poi ritornato la sera. E forse così avrebbe fatto, se l’altro ch’io dissi di sopra, caduto anch’egli infermo e assalito dalla medesima qualità di febbre, non avesse mandato per tutti i medici del paese per udire il parere di ciascheduno: i quali essendo alla casa di lui accorsi sollecitamente, furono tanto sfaccendati per lui, e tanta diligenza vi usarono intorno, che il meschino letterato si rimase soletto ad attendere la morte vicina. Intanto dall’altro lato fioccavano le ricette, traevansi dal mortajo polveri, [p. 199 modifica]stillavansi acque e olj. Chi dicea: Io farei sì e sì; e Io accordo, aggiugneva un altro, ma vi aggiungerei questo di più. Sia fatto, bene sta; sicchè si udìa sempre ad ordinare nuove cose: e vi fu il ricettario tutto dall’acacia allo zafferano; vedendovisi una perpetua processione di pillole, giulebbi, sciloppi, lattovarj, tanto che la stanza parea un mercato di ampolle e carte, mentre che nella casettina del letterato vi avea a pena una boccia senza becco, piena di acqua, arrecatagli da una vecchierella vicina. A capo di due giorni si vide quella notabile sperienza ch’io dissi. L’uomo di lettere fu veduto per la città a camminare co’ piedi suoi e andare dov’egli volea; e l’altro co’ piedi del prossimo alla volta di una chiesa. Dicesi che quel medico, il quale fu il primo giorno a visitare il letterato, scrive un libro di osservazioni fatte sopra la malattia di lui, e sulle forze della natura.