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196 | novella lxxxvi. |
chi egli fosse, disse: Qua il polso. Il povero convalescente, credendo che fosse l’archimandrita de’ medici, il quale udito il suo pessimo stato fosse venuto a lui per vedere se l’arte avesse più segreto che gli potesse giovare, trasse fuori il braccio col tremito della morte, e cheto cheto attendeva dal medico maggiore la sentenza del suo stato. Il toccatore del polso dappoichè egli ebbe assecondate le pulsazioni con altrettanti cenni di capo, lasciato stare il braccio e fattoglielo coprire, e dettogli un aforismo d’Ippocrate intorno alle febbri procedenti da catarro, gli fece varie interrogazioni, indi commendata molto l’assistenza e la diligente cura fatta dal medico del suo male, e principalmente l’ordinazione delle ventose, disse: Qua l’altro polso. Il pover’uomo, che ancora non sapea a que’ generali ragionamenti qual fosse la decisione del nuovo dottore, con le lagrime agli occhi e freddo come pietra per la paura cavò fuori il braccio sinistro, e glielo diede, con un profondissimo sospiro, nelle mani, dicendo fra sè: Di qua pende il giudizio della mia vita. Speriamo bene, disse il valentuomo toccando; speriamo bene: la signoria vostra abbiasi custodia, ch’io la lascio con la buona notte. Così detto, senza altro ragionare, se ne andò a’ fatti suoi, e lasciò il pover’uomo sì concio l’animo, che gli parea di vedersi intorno le torce. Volle la sua buona ventura che uno di casa entrò allora nella sua stanza, a cui quasi singhiozzando raccontò l’apparizione del nuovo medico; e raccomandavasi che alcuno andasse pel notajo che volea disporre delle cose sue; quando gli fu detto che quegli non era medico, ma uno speziale, il quale per amore che avea a quella famiglia, quando udiva che quivi erano infermi, andava spontaneamente a visitarli; e perchè egli nol volea credere, furono quivi chiamati quanti erano in casa per testimonj, i quali affermandogli che così era, a grandissima fatica gli poterono trarre il conceputo timore di corpo, e fargli credere ch’egli era interamente guarito.