Novellette e racconti/LXXI. Curiosi effetti che possono nascere dalla paura

LXXI. Curiosi effetti che possono nascere dalla paura

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LXXI. Curiosi effetti che possono nascere dalla paura
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LXXI.


Curiosi effetti che possono nascere

dalla paura.


Un giovane di buon’aria, volendo avere un luogo da sè per passatempo, lontano da casa sua, prese a fitto una casettina con poche stanze, e guernitala a volontà sua di quello che gli piacque, andava quivi talvolta a starsi in ozio e a godersi qualche ora tranquilla. Fra le altre cose avea fornito benissimo uno stanzino di bottiglie, e vi avea tovagliuolini, posate e ogni altra cosa che apparteneva a far buona vita per sè, e per gli amici suoi. Prese al servigio suo un cameriere, e fatto fare due chiavi della casettina, una ne tenne per sè, e l’altra la diede a lui, dicendogli: Vedi, tu ed io soli possiamo liberamente entrare in questo luogo, e le robe che in esso sono, vengono alla fede tua commesse: pensa, che se qualche cosa mi mancherà, io saprò a cui darne la colpa. Il cameriere, prese le chiavi, commendò grandemente la fede sua, e ringraziando il padrone che in quella si affidasse, promise di far sì, che ne sarebbe rimaso contento. Comechè fosse, il padrone pel corso di un mese si ritrovò in tante faccende impacciato, che appena da sei volte in su potè entrare nel luogo suo, e starvi anche sì poco, [p. 126 modifica]che non ebbe mai cagione di valersi di alcuna delle masserizie che quivi erano. Pur finalmente entratovi un giorno in cui avea un poco più d’agio, gli venne in cuore di rivedere cosi da sè a sè le cose sue; e tratto fuori da un armadietto l’inventario che avea, cominciò a noverare le bottiglie: una, due, tre ecc. L’inventario ne ebbe in fine la metà più che lo stanzino in cui erano rinchiuse. Va a’ tovagliuolini: uno, due, tre; non ci fu caso di poter allungare il numero di essi fino a quello che era segnato nella carta. Che dirò io più? d’ogni cosa gli era stato tolto la metà; e veramente io trovo che nelle faccende un poco di disordine non è male; e se egli non avesse fatto la scrittura, non avrebbe forse avuto il dispiacere di sapere quello che gli mancava. Quivi non vi era da storiare: il cameriere solo vi era stato; e potea egli solo aver trafugato quel che non vi era. Lascia passare due dì, a capo de’ quali la sera, chiamato a sè il servo, s’avvia seco verso la casettina e gli dice: Apri. Così, fa: entrano. Il padrone gli dice: Chi ha avuto le chiavi di questa casa? Voi e io, risponde il servo. E le desti tu mai ad alcuno? risponde il padrone. No, le non sono uscite mai delle mie mani; io so quanto vossignoria mi raccomandò il primo giorno. Egli è sì lungo tempo, dice il signore, che non ci fui, che io non so quello che ci abbia, e ho a trattare alcuni miei amici: riscontriamo le robe all’inventario. Il servo copre il suo battimento di cuore col miglior viso che può, e con le carte in mano si va a noverare: ogni cosa è la metà. Il servo comincia ad imbiancare, e la lingua parea d’uomo che parli col ribrezzo della terzana. Il signore che buon animo avea, e forse anche incominciava a temere di trovarsi quivi soletto con un ladroncello, gli fece una garbata diceria, in fine della quale gli disse che gli avrebbe perdonato ogni errore se gli confessava il vero. Il servo colpevole, tocco il cuore da tanta generosità, pieno di vergogna e di rabbia contro di sè medesimo, datosi un pugno nel petto e strabuzzando gli occhi, che parea [p. 127 modifica]invasato, gridò: Ahi, ch’io sono disperato! ed era vicino a gittarglisi dinanzi inginocchioni: ma il padrone non gli diede tempo, perché veduto il pugno e gli occhi stralunati, e udite le parole, fatta riflessione alla solitudine, credendosi morto, senza altro attendere, balzò all’uscio e la diede a gambe quanto potè, spacciando il cammino come una lepre. L’altro vedendolo a correre con quella furia e desideroso di chiedergli perdono, gli va dietro con quella fretta che può; onde tanto più il padrone menava le calcagna, ché gli parea di avere alle spalle un basilisco. Era più giovane e più gagliardo, onde gli riuscì di sparirgli davanti; e correndo e ansando entrò nella casa paterna, salì le scale come un uccello, e per avventura ritrovata la madre in un salotto, la fece quasi spiritare di paura. Ch’è, dic’ella, che hai tu, figliuol mio? Ho dietro un disperato, risponde: e senza punto arrestarsi corre nella camera sua e col chiavistello si chiude forte. Intanto la madre ode il secondo romore, e vede il cameriere, pure parendole ch’egli avesse in viso altri segni che di disperazione, gli domanda che sia: e quegli, inginocchiatosi dinanzi alla madre, le narra il fatto, e domanda di poter chiedere perdono al suo buon padrone. La madre si accosta allo imprigionato, e gli dice: Apri, figliuolo, non è nulla. Egli grida di dentro: Non voglio vedere disperati: odo la voce del disperato. — No, dico, ascolta.— Madre mia, egli è disperato: dategli danari, dategli roba, a tale ch’esca di Venezia, se volete ch’io esca di qua: altrimenti io ci starò fin che vivo. Finalmente se la madre volle che egli uscisse di carcere, le convenne sborsare una buona quantità di danari al cameriere, il quale si partì da Venezia, e il giovane usci della stanza, e fra pochi giorni licenziò la sua casettina e vendette le masserizie, senza più voler vedere nè questa nè quelle, tanto avea agli occhi e negli orecchi la faccia e le parole del disperato.