sato, gridò: Ahi, ch’io sono disperato! ed era vicino a gittarglisi dinanzi inginocchioni: ma il padrone non gli diede tempo, perché veduto il pugno e gli occhi stralunati, e udite le parole, fatta riflessione alla solitudine, credendosi morto, senza altro attendere, balzò all’uscio e la diede a gambe quanto potè, spacciando il cammino come una lepre. L’altro vedendolo a correre con quella furia e desideroso di chiedergli perdono, gli va dietro con quella fretta che può; onde tanto più il padrone menava le calcagna, ché gli parea di avere alle spalle un basilisco. Era più giovane e più gagliardo, onde gli riuscì di sparirgli davanti; e correndo e ansando entrò nella casa paterna, salì le scale come un uccello, e per avventura ritrovata la madre in un salotto, la fece quasi spiritare di paura. Ch’è, dic’ella, che hai tu, figliuol mio? Ho dietro un disperato, risponde: e senza punto arrestarsi corre nella camera sua e col chiavistello si chiude forte. Intanto la madre ode il secondo romore, e vede il cameriere, pure parendole ch’egli avesse in viso altri segni che di disperazione, gli domanda che sia: e quegli, inginocchiatosi dinanzi alla madre, le narra il fatto, e domanda di poter chiedere perdono al suo buon padrone. La madre si accosta allo imprigionato, e gli dice: Apri, figliuolo, non è nulla. Egli grida di dentro: Non voglio vedere disperati: odo la voce del disperato. — No, dico, ascolta.— Madre mia, egli è disperato: dategli danari, dategli roba, a tale ch’esca di Venezia, se volete ch’io esca di qua: altrimenti io ci starò fin che vivo. Finalmente se la madre volle che egli uscisse di carcere, le convenne sborsare una buona quantità di danari al cameriere, il quale si partì da Venezia, e il giovane usci della stanza, e fra pochi giorni licenziò la sua casettina e vendette le masserizie, senza più voler vedere nè questa nè quelle, tanto avea agli occhi e negli orecchi la faccia e le parole del disperato.