Novellette e racconti/LXVII. Il Suonatore a suo dispetto
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LXVII.
Il Suonatore a suo dispetto.
Il caso fa nascere alle volte certe avventure, dalle quali sarebbe stato impossibile che l’uomo si guardasse, tanto sono lontane da ogni umano avvedimento. Ciò si può in parte comprendere da quello che successe ed un gentiluomo di una città non molto da questa lontana, come io lessi in una lettera scritta da lui medesimo ad un suo amico, e molto mio, che mi conferì l’accidente.
Questo gentiluomo dunque, il quale per molti anni si esercitò nell’arte della guerra, deliberò di godersi in pace nella sua patria, dove è ben veduto e amato da’ concittadini suoi. Essendo però egli stanco de’ romori del mondo, comechè si trovi ancora in età fresca e vigorosa, ha posto il suo maggior diletto nell’andare da sè solo a caccia, o nel passare il tempo suonando un oboè con tanta maestria, che sembra la sua professione. E soprattutto quando sa che ne’ vicini villaggi si faccia qualche sagra solennità, quivi ne va tutto soletto a piedi e con lo strumento suo sotto il braccio per suonare alla chiesa, piacendogli di vedere la maraviglia di quegli attoniti villani, i quali a bocca aperta e con gli occhi stralunati ascoltano l’armonia del non conosciuto strumento. Un giorno fra gli altri dunque, che egli avea suonato in una chiesa, lontana forse due miglia dalla città, se ne ritornava, secondo la usanza sua, per esercizio e per ispasso indietro alla volta di casa, solo e a piedi, e con l’oboè sotto il braccio. Nè era forse giunto alla metà del cammino in un luogo solitario e da lunge da tutte le genti, quando gli vennero incontro due uomini con un archibuso in ispalla per ciascheduno, e con certi visi che avrebbero dato sospetto a Marte. E oltre a ciò si avvide, all'andare ondeggiando, ch’essi aveano in capo più vino che cervello. Andavano costoro al loro cammino, e come gli furono appresso e adocchiarono l’oboè ch’egli tenea secondo l’uso suo, gli domandarono: Suoni tu quel coso? Egli non rispose, e ne andava pe’ fatti suoi. Ma levandosi essi dalle spalle gli strumenti loro, e fatti due ceffi i più micidiali che si vedessero mai, ritoccarono di nuovo se egli quel coso suonasse. Egli trovandosi quivi solo e disarmato, non sapendo che farsi, rispose che sì, e che egli n’era il suonatore. Or bene, disse uno di loro, sbrigati e suona. Il gentiluomo, riordinato lo strumento, e messogli la piva in becco, incominciò intuonare. No, no, dissero i briganti, suonaci un minuetto. Che si avea a fare? comincia a trinciar l’aria in tuono di minuetto, e le due bestie cominciano a danzare con le più strane giravolte e co’ più lunatici aggiramenti che facessero mai poàne in aria intorno ad una chioccia: infine si porgono la mano, e chiudono con la riverenza. Il suonatore crede che sia terminato: non è vero; vogliono un ballo alla gagliarda; ed egli ritocca, ed essi fanno scambietti, capriuole e salti, che parea che volassero; poi tornano al minuetto; poscia al gagliardo, senza mai dargli requie nè modo da rifiatare un momento, tanto ch’egli era vicino a far uscire quel poco di anima ch’egli avea in corpo fuori per la canna dello strumento. Se non che in fine il vino, aggiunto al caldo della danza e dell’aggirarsi intorno, fece l’ufficio suo, e i due ballerini quasi ad un tempo caddero e si distesero a terra come morti, tanto che il suonatore fu tentato allora di bastonarli come due tappeti. Ma egli era sì stanco e parte sì maltrattato dell’avuta paura, che si mise a trottare verso la casa sua, e fece giuramento di non andar più a suonare alle funzioni da lontano e solo.