Novellette e racconti/LXII. Il Pazzo che vuol farla da medico

LXII. Il Pazzo che vuol farla da medico

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LXII. Il Pazzo che vuol farla da medico
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LXII.


Il Pazzo che vuol farla da medico.


Quando uno ha alquanto riputazione di pazzo e dì lunatico, e la cosa si fa pubblica, io non so se perchè il sangue tiri o per altra cagione che si sia, tosto le genti gli corrono dietro come i pettirossi alla civetta. Pare a tutti una bella cosa quel sentire un cervello che in un attimo di tempo va di palo in frasca mille volte, e risponde alla riversa, e comincia ragionamenti che non verrebbero in capo a chicchessia, con un’affluenza di parole che mai non cessano e con un fervore che mostra l’animo di chi parla. Che è, che non è, al pazzo vengono in capo certe cose che bisogna ad un tratto sgombrar di là e metter le ale, chi non vuol andarne via spallato e col capo rotto, o forse rimanere sul campo di battaglia senz’anima in corpo.

Nelle vicinanze di Trevigi è uno di questi cervelli, il quale di tempo in tempo va a lanci e a salti come gli pare e come lo tocca la fantasia; e fra le altre sue qualità ha questa, che secondo l’arte della persona con cui parla, gli pare di [p. 110 modifica]essere divenuto un artefice dell’arte sua, di modo che parlando con un fabbro, gli pare di essere alle mani con un’incudine, e guai s’egli immagina di picchiare col martello: s’egli ha innanzi un marangone, vuoi segare o piallare; e così fa di tutte le arti. Va egli fuori sempre con un servo che lo accompagna per custodir lui e il prossimo dalla sua pazzia; e perchè quasi mai non dorme, ha due servi, i quali per poter meglio sofferire la fatica, si scambiano, ed ora l’uno, or l’altro l’accompagnano dovunque egli va, o stanno seco nelle stanze di sua casa. Ora avvenne che uno di essi servi infermò; ond’egli non vedendolo come solea a sè d’intorno, e chiedendo all’altro la cagione di ciò, l’intese, e udendo a dire ammalato, gli venne in cuore di essere medico, e montato in furia, proruppe in molti rimproveri, chè ancora non era stato chiamato alla cura di lui. Non vi fu modo di ritenerlo, e volle in ogni modo andare a visitarlo, sicchè convenne appagare la voglia di lui e condurnelo alla stanza dell’infermo. Il novello Galeno, accostandosi al letto di lui, cominciò a fargli diverse interrogazioni, sicchè parea medico: gli fe’ mettere fuori delle lenzuola il braccio e volle toccargli il polso, che non l’avrebbe trovato agli edificj da fare carta, e gli disse che avea una gagliarda febbre, ma che con l’ajuto della sua virtù l’avrebbe incontanente guarito: e fattosi arrecare innanzi calamajo e fogli per iscrivere la ricetta, stette alquanto pensoso, quasi speculasse mirabili medicine. Finalmente, nulla scrivendo, disse: Io so quello che si fa in lontananza de’ medici, che gl’infermi non fanno con ordine e misura quello che viene ordinato loro, onde l’uomo ne muore e s’incolpa la poca avvertenza o l’ignoranza del medico. A me non avverrà, già egli così, anzi voglio io medesimo ordinare ed eseguire le mie ordinazioni. Tu non hai di bisogno d’altro, che di un cristerio, e ti do bello e guarito. Così detto, guardandosi intorno e vedendovi molti archibusi che carichi erano, ne brancò uno, e fu vicino a un dito a [p. 111 modifica]schizzarglielo addosso, se l’altro servo non gli toglieva lo strumento di mano. Fu però vero che l’infermo, al solo aspetto del rimedio, balzò fuori del letto con una gagliardia, che parve un lottatore, e balzò fuori di camera come un cavriuolo.