Novelle (Bandello, 1910)/Parte III/Novella XXIV

Novella XXIV - Una giovanetta, essendo suo fratello da uno sbirro assalito, ammazza esso sbirro, ed è dalla giustizia liberata

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Novella XXIV - Una giovanetta, essendo suo fratello da uno sbirro assalito, ammazza esso sbirro, ed è dalla giustizia liberata
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IL BANDELLO

al vertuoso ed illustre signore

il signor

cesare trivulzo

salute


Ancor che l’etá nostra in molte cose sia, se non superiore, almeno a quelle antiche passate e tanto famose uguale, come tante fiate voi e il dotto messer Girolamo Cittadino meco ne lamia camera avete ragionato, discorrendo ne le cose de l’armi e de la milizia moderna e d’ogni sorte di lettere; in una cosa si può dire che ella sia di gran lunga inferiore, né credo che voi e il Cittadino mi debbiate contradire, perciò che la cosa è troppo chiara e manifesta. E questa è la carestia dei buoni scrittori, dei quali quei tempi antichi erano copiosissimi. A quei tempi se un uomo o donna faceva un atto o diceva un arguto motto che meritassero lode, subito erano scritti. Né bastava loro semplicemente descrivere la cosa come era stata fatta o detta, ma con titoli, con epigrammi, con statue ed archi celebravano, onoravano, lodavano e la cantavano. Per lo contrario a’ nostri giorni non solamente non cerchiamo di essaltare e magnificare l’opere meritevoli di lode e commendare i belli e ingegnosi detti che secondo l’occorrenti materie si dicono; ma, che molto peggio è, non ci è chi gli scriva, mercé del guasto mondo ed avaro e di tante mortali ed orrende guerre che la povera Italia hanno tanti e tanti anni tenuta oppressa, di modo che si può con veritá dire che le muse ai fieri tuoni di tamburi, trombe e artigliarie sono in cima di Parnaso fuggite. E nondimeno si vede che tutto il di accadeno cose bellissime che sono degne d’eterna memoria. Ora avendo il nostro signor Giovanni Castiglione fatto un desinare a molti gentiluomini e gentildonne, dopo [p. 284 modifica]PARTE TERZA che si fu desinato, ragionandosi di varie cose, il signor Guarnero suo fratello disse a messer Giovanni Antonio Cusano, medico eccellente, che devesse romper i vari ragionamenti de la brigata e con qualche novella intertenesse si bella compagnia di gentildonne e gentiluomini come era quella. Il Cusano che è, oltra la nobiltà de la famiglia, cortese e molto dotta persona, non seppe a la richiesta contradire; onde, fatto silenzio, narrò una novelletta in Milano accaduta. La quale, perché m'è paruta degna di memoria, ho voluto scrivere e a voi donare, non già perché io non istimi il valor vostro e le vertuose vostre doti, da me ottimamente conosciute, degne di molto maggior cosa, ma per dar un padrone a questa mia figliuola, che sotto il vostro nome potrà sicuramente in ogni luogo gire, massima- mente se il nostro giudicioso signor Renato Trivulzo, vostro onorato cugino, degnerà di lodarla. State sano. NOVELLA XXIV Una giovanetta, essendo suo fratello da uno sbirro assalito, ammazza esso sbirro ed è da la giustizia liberata. Poi che il signor Guarnero, amabilissime donne e voi cortesi signori, mi comanda che io novellando intertenga questa nobilissima compagnia, ed io lo farò molto volentieri, a ciò che quando quegli uomini che poco hanno de l’uomo biasimano il sesso feminile e dicono che le donne non son buone se non per l'ago e per l’arcolaio e di star in cucina a favoleggiar con le gatte, chiunque sarà veramente uomo e tutte voi, donne, possiate lor dare la conveniente risposta che questi inumani e goffi mertano, a ciò che, come si suol dire, « Quale dà l’asino in parete, tale riceva». Né crediate ch’io voglia ora parlare de la madre di Evandro, Carmenta, né di Pentesilea né di Camilla né di Saffo né de la famosa Zenobia palmirena né de le antiche e fortissime amazoni né di molte altre che in arme e lettere acquistarono pregio e sono da’ famosi scrittori celebrate. Io non voglio ora uscir d’Europa. Che dico di Europa? non vo’partirmi da la bella Italia né dal nostro fertile e ricco Milano, patria d’ogni [p. 285 modifica]NOVELLA XXIV buona cosa abondevole. Ed essendo noi qui a Porta Vercel- lina in casa del signor Giovanni, voglio che solamente passiamo a Porta Comense nel suo popoloso borgo, ed entriamo nel giardino de la molto vertuosa e gentile signora Ippolita Sforza e Bentivoglia. Vedete mò die poco viaggio voglio che facciate. Devete dunque sapere che, non sono ancora duo mesi, un giovine di bassa condizione, ma tuttavia nodrito con soldati e stato su l’arme, figliuolo de l’ortolano che aveva in cura il detto giardino e ’1 palazzo, circa l’ora del desinare andava a casa. Ed essendo in fantasia per aver fatto parole con non so chi in «filano, teneva la mano su la spada, come fanno il più de le volte questi tagliacantoni ; e non mettendo troppo mente a quello che si dicesse né facesse, bizzarramente braveggiando, disse assai forte: — Al corpo di Cristo, io lo giungerò! si farò, al corpo di Cristo! Ad ogni modo io ho a metter questa spada — e questo dicendo, cavava quasi mezza la spada fuor del fodro — ne le budella ad un traditore, e tante volte lo passerò di banda in banda che mi caderà morto a’ piedi. — E poi fra sé, pur farneticando tuttavia e borbottando alcune parole fra’ denti, con viso turbatissimo diceva basso non so che. Egli era nel mezzo de la via che va dritto a San Sempliciano, che sapete esser assai larga e patente. Mentre adunque che egli con questi ghiribizzi in capo diceva ciò che v’ho detto, a lui vicino passava uno dei sergenti de la corte, che noi chiamiamo « sbirri », che ritornava dentro la città, avendo nel borgo fatte certe essecuzioni; ed egli anco aveva la sua abitazione assai vicina al giardino di che v’ ho parlato. Il sergente, veggendo il turbato viso del minacciante giovine e udendo le fiere parole che diceva, si persuase, avendo altre volte esso sbirro fatto parole col giardiniero padre del giovine, che egli quelle bravate facesse per suo dispregio e vituperio. Volendosi adunque chiarire de l’animo del giovine, gli disse: — Giovan Antonio — ché tale era il nome del giovine, — io non so se tu parli meco, perciò che, non veggendo ora persona qui vicina, non posso pensare altrimenti. Se tu hai cosa alcuna da partir meco, parla chiaro, ché io son bene uomo per risponderti ad ogni maniera [p. 286 modifica]286 PARTE TERZA che tu vorrai. — A questo, alquanto il giovine fermatosi, cosi rispose: — Basta! lo non sono tenuto né voglio renderti conto dei casi miei. Ben ti dico che questa spada — e quella cavò un poco fuori — ho io senza dubbio da ficcare ne la pancia ad un ladro traditore. Si farò, per lo corpo di Cristo! — Né più disse, ma se n’andò verso casa, non si fermando fin che non fu arrivato al palazzo del giardino, che non troppo da lunge era. A lo sbirro, avendo sentita la risposta, cadde nel capo che colui minacciato l’avesse. Il perché deliberò chiarirsene, e tornando indietro, andò a la casa del giovine, che voleva desinare, non essendo altri in casa che una sua sorella di venti anni. Picchiò 10 sbirro a la porta, e il giovine, fattosi a la finestra, domandò ciò che voleva. — Vorrei — disse egli — dirti due parole. — 11 giovine, avendo la sua spada a lato, venne di sotto, ed aperta la porta usci su la strada. Alora lo sbirro molto orgogliosamente gli disse che voleva sapere se per lui aveva dette quelle parole. Il giovine gli rispose che s’andasse per i fatti suoi e che alora non era tempo di confessarsi, e che ciò che detto aveva era ben detto e che di nuovo lo ridirebbe. —Tu menti per la gola ! — disse Io sbirro. Alora il giovine tutto ad un tratto gli diede un bravo schiaffo e cacciò mano a la spada. Il medesimo fece lo sbirro, e cosi l'un l’altro s’ingegnava di ferire. Corse di molta gente al romore e tra l'altre una cognata de lo sbirro, donna di trenta anni, la quale aveva un pezzo d’una picca rotta in mano e dava al giovine al più dritto che sapeva. Egli, vergognandosi ferire una donna, attendeva a lo sbirro. La sorella del giovine, sentendo il romore, diede di mano ad una spada e, animosamente saltata fuori, per la prima pigliò l’asta di mano a l’altra donna e con quella le diede due o tre gran bastonate, di modo che ebbe di grazia di ritirarsi a dietro. La giovane dapoi diceva al fratello: — Fratei mio, lascia far a me con questo sbirro ladro, ché io lo castigherò. — Volle il giovine più volte cacciar via la sorella da quella mischia, attendendo più a farla partire che di battere il nemico. Ma ella mai non lo consenti, anzi tanto fece che, come una leonza gettatasi a dosso a lo sbirro, lo feri su la testa. Il giovine, veggendo il [p. 287 modifica]NOVELLA XXIV 287 nemico ferito, si ritirò e medesimamente voleva che la giovane si ritirasse; ma il tutto era indarno. Ella gli diede tante ferite che lo uccise; il che parve a’ circonstanti, che il romore quivi tratti aveva, una cosa miracolosa, e veggendo ciò che con gli occhi propri vedevano, si credevano insognarsi. Ed ecco in questo che sovragiunse uno dei bargelli del capitano di giustizia, il quale, trovato il sergente de la corte morto e veduto il giovine e la sorella con l’armi ancora in mano, fece prendere il giovine per menarlo a la corte. Ma la fanciulla, che per la mischia era tutta affocata come un ardente carbone, veggendo menar il fratello in prigione, fattasi innanzi al bargello, animosamente gli disse: — Signore, se io con questa spada ho ammazzato questo traditore che voleva ancidere mio fratello, se nessuno deve esser punito, io merto la punizione. Ma non penso che difendendoci debbiamo meritare pena alcuna. — Il bargello, non si potendo imaginare che una giovane avesse fatto questo omicidio né altro ricercando, poi che il giovine preso nulla diceva, condusse il prigionero a la corte. Il caso fu fatto intendere al molto cortese e da bene signor Alessandro Bentìvoglio, il quale, del tutto pienamente informato, ebbe modo di far metter in luogo sicuro la giovane, che Bianca si domandava, a ciò non venisse a le mani de la giustizia. E volendo il capitano di giustizia far il processo contra Gioan Antonio, il signor Alessandro prese a diffenderlo con la ragione. E fatti essaminare molti testimoni, si trovò che il giovine non era in colpa de la morte del sergente, anzi fu provato ch'egli s'era affaticato pur assai per levar la sorella da l'impresa, di modo che egli fu assolto ed usci di prigione. Si attese poi a la salvezza de la donna, e la cosa andò si bene, che si provò che ciò che ella fatto aveva il tutto era stato a sua diffesa, onde anco ella rimase libera. Che direte voi qui, bellissime donne? parvi che questa garzona meriti d’esser lodata? Veramente se un uomo de l’età di questa fanciulla avesse fatto un simil ufficio per aiutare un compagno, uno amico o parente suo, tutti gli uomini lo predicarebbero e lo cacciarebbero fin a le stelle. Questa gio- vanetta, per essere di nazione infima e perché è donna, 11011 [p. 288 modifica]288 PARTE TERZA averà chi meritevolmente l’essalti, la lodi e celebri? E pur se a le opere de la vertù la debita lode si de’ dare, ella certissimamente merita da tutti esser celebrata e predicata. Ella ha mostrato un animo virile e generoso; poi s’è diportata con molto più valore che a par sua non appartiene. Primieramente ella ha diffeso il fratello da le mani del suo nemico, e quello valorosamente anciso: dopoi volontariamente, quanto in lei è stato, s’è voluta porre in mano de la giustizia, a ciò che il fratello non ci andasse: cose tutte certamente d’eterna memoria degne.