Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XXV

Novella XXV - Giovanni Maria Visconti, secondo duca di Milano, fa interrare un parrocchiano vivo, che non voleva seppellire un suo popolano, se non era dalla moglie di quello pagato
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[p. 21 modifica]a sua diffesa, onde anco ella rimase libera. Che direte voi qui, bellissime donne? parvi che questa garzona meriti d’esser lodata? Veramente se un uomo de l’etá di questa fanciulla avesse fatto un simil ufficio per aiutare un compagno, uno amico o parente suo, tutti gli uomini lo predicarebbero e lo caccierebbero fin a le stelle. Questa giovinetta, per essere di nazione infima e perché è donna, non averá chi meritevolmente l’essalti, la lodi e la celebri? E pur se a le opere de la vertú la debita lode si de’ dare, ella certissimamente merita da tutti esser celebrata e predicata. Ella ha mostrato un animo virile e generoso; poi s’è diportata con molto piú valore che a par suo non appartiene. Primariamente ella ha diffeso il fratello da le mani del suo nemico, e quello valorosamente anciso; dopoi volontariamente, quanto in lei è stato, s’è voluta porre in mano de la giustizia, a ciò che il fratello non ci andasse: cose tutte certamente d’eterna memoria degne.


Il Bandello al magnifico
messer Girolamo Cittadino


Nel principio che la setta luterana cominciò a germogliare, essendo di brigata molti gentiluomini, ne l’ora del merigge, in casa del nostro vertuoso signor Lucio Scipione Attellano, e di varie cose ragionandosi, furono alcuni che non poco biasimarono Leone decimo pontefice, che nei principii non ci mettesse rimedio, alora che frate Silvestro Prierio maestre del sacro palazzo gli mostrò alcuni punti d’eresia che fra Martino Lutero aveva sparso per l’opera, la quale De le indulgenzie aveva intitolata, perciò che imprudentemente rispose che fra Martino aveva un bellissimo ingegno e che coteste erano invidie fratesche. Ché se alora ci avesse proveduto, era facil cosa la nascente fiamma smorzare, che dapoi ha fatto, con danno irreparabile di tutta la cristianitá, cosí grande incendio. Ora dicendo ciascuno il suo parere, messer Carlo Dugnano, uomo molto attempato e di lunga esperienza: – Figliuoli miei, – disse, – di queste eresie, che ora io intendo che sono da’ tedeschi sparse, non incolpate altro che i nostri peccati, volendo il nostro signor Iddio con questo mezzo castigare, come altre volte fece, questa nostra patria di Milano con quei pestiferi ariani. Tuttavia, se mi fosse lecito di dire, io [p. 22 modifica]con riverenza direi che l’avarizia e l’ingordigia dei sacerdoti sia quella che in gran parte abbia dato grandissimo fomento a queste diavolarie, e dará vie maggiore se la Chiesa non mette mano a la commenda dei chierici e anco di tutti i cristiani, perché ciascuno ha bisogno in suo grado di castigo. Ma non debbiamo noi altri, lasciato il vero e buon camino dei nostri maggiori, andar dietro a le favole di questi fantastici e chimerici uomini, anzi mostri, che vogliono sapere piú di quello che bisogna. E forse, se talora a chi erra si desse debita punizione, che si sanerebbero piú di duo infermi e la via si levarebbe a cotesti di mormorare degli ecclesiastici. E perciò vi vo’ dire ciò che operò Gioan Maria Vesconte, secondo duca di Milano, non perché si debbia imitare, ché in effetto fu uomo ferino e di costumi pessimi, ma perché si veda che talora una straordinario giudicio causa di buon effetti. – Narrò adunque il Dugnano ciò che in questa novelletta io ho descritto e sotto il dotto vostro nome publicato, a ciò che sia appo voi pegno del mio amore che vi porto, e al mondo resti testimonio de la nostra amicizia. State sano.

Novella XXV

Gian Maria Vesconte, secondo duca di Milano,
fa interrare un parrochiano vivo, che non voleva seppellire
un suo popolano se non era da la moglie di quello pagato.


Soleva mio avo, quando io era fanciullo, narrare molte di quelle crudeltá che Giovan Maria Vesconte, secondo di quella nobilissima schiatta fu duca di Milano, usava contra i suoi sudditi, perciò che per ogni picciola offensione faceva ed uomini e fanciulli smembrare e manicare a certi cani, che solamente per simil crudeltá nodriva. Ma io non vo’ ora venire a particolari effetti, ché sarebbe troppo lunga e crudele tragedia da narrare. Vi vo’ ben dire un fiero e agro castigo che egli diede ad un religioso prete. Dicovi adunque che, cavalcando esso duca per Milano, s’abbatté a passare per una via, ove in una picciola casetta sentí un gran lamento, con un pietoso lacrimare che quivi entro si faceva, con batter di mani ed alte strida, come talora soglion fare le donne mezze disperate. Udendo il duca cosí fatto ululare, comandò ad uno dei suoi staffieri che in casa entrasse e intendesse la cagione di cosí fiero pianto. Andò lo staffiero e non dopo molto a l’aspettante duca ritornò e sí gli disse: – Signore, qua dentro è una povera femina con alcuni figliuoli, che piange amarissimamente [p. 23 modifica]un suo marito che ha dinanzi morto, e dice che il parrocchiano non lo vuol sepellire se non lo paga, ma che ella non ha un patacco da dargli. – Il duca, come sentí questa cosí disonesta avarizia, sorridendo disse a quelli che seco cavalcavano: – Veramente questo messer lo prete é un poco troppo avaro. Bisogna che noi facciamo questa opera di caritá, di far sepellire questo povero morto e appresso fare elemosina a la lacrimante sua moglie. – E rispondendo tutti quei cortigiani che faria molto bene, egli mandò a chiamare il parrocchiano, il quale, udito il comandamento del duca, subito venne. Il duca, che lo vide ben vestito e molto grasso, giudicò che fosse un prete di buon tempo, che andasse fuggendo le fatiche e che volesse mangiare di buoni e grassi capponi e bevesse de la meglior vernaccia che si trovasse in Milano. Come messer lo prete fu dinanzi al duca, riverentemente gli domandò ciò che gli comandava. – Noi vogliamo, – rispose egli, – che voi debbiate dar sepoltura a quel povero uomo che lá entro giace morto, e noi vi faremo dare il conveniente premio che meritate. – Il prete rispose di farlo, e se n’andò incontinente a la chiesa, che era ivi vicina, e con alquanti preti e chierici suoi si vestí con la cotta e la stuola, e levò il corpo e lo fece portare a la chiesa, cantando piú solennemente che si poteva, per mostrarsi ben saccente e gran musico, veggendo che il duca, smontato, a piedi con tutta la corte accompagnava il morto. Mentre che l’essequie si celebravano, aveva ordinato il duca ad uno dei suoi che comandasse ai beccamorti che facessero nel cimitero una piú profonda fossa che vi si potesse fare; il che fu in poco d’ora fatto. Stette il duca continovamente ne la chiesa fin che l’essequie si fornirono, le quali, come sapete, con salmi, evangeli, e letanie a l’ambrosiana, sono molto piú lunghe che non sono i mortuarii a la romana. E messer lo prete le faceva, per onorar il duca, molto piú solenni del solito. Fatto portare dopoi il corpo fuor di chiesa, e cantatovi sopra ciò che si costuma, volendo i beccamorti metter il cadavere ne la fossa, il duca, fattosi innanzi, gli fece fermare e gli comandò che pigliassero il parrocchiano ed insieme col corpo del morto strettamente lo legassero e mettessero dentro la sepoltura. Era la crudeltá del duca appo grandi e piccioli cosí chiara che ciascuno lo temeva come il morbo; onde, come gli sbigottiti preti e chierici videro il loro parrocchiano esser preso, senza aspettar altro, gittata per terra la croce con l’aspersorio ed acqua santa, quanto le gambe ne li poterono portare andarono via, parendo loro tratto tratto che i beccamorti gli devessero prendere e sotterrargli insieme [p. 24 modifica]col morto. Lo sciagurato ed avaro parrocchiano, gridando tuttavia mercé, fu per comandamento del duca messo ne la fossa e coperto incontinente di terra. Il perché, essendo la buca molta alta e il peso de la terra che a dosso gli fu gettata assai greve, si può credere che il povero prete subito si soffocasse. Come il duca vide la fossa esser piena, comandò ad uno dei suoi che andasse a casa del prete, e che quanto in casa si trovava da vivere e tutte le cose mobili che v’erano fossero date in dono alla povera vedova e suoi figliuoli. Il che fu integralmente esequito, con tanto terrore di tutta la chiesa di Milano, che per parecchi dí non vi fu prete che due volte da popolani si facesse richiedere. Ed ancora che cosí fatto castigo fosse nel vero troppo barbaro e crudele, fu nondimeno cagione che molti preti comendarono la loro discorretta vita. Pertanto, come v’ho detto, saria talora buono usare degli straordinari rimedii. Io mi fo a credere che gli avi nostri, che in Milano hanno fondato le cento parrocchie che vi sono, oltra altre tante badie, chiese, monasteri di frati e monache che molti si veggiono in questa cittá, e gli hanno arricchiti di rendite e possessioni, l’abbiano fatto perché i frati, i preti ed altre persone religiose possano vivere ed officiare le chiese, e ai poveri ministrare i sagramenti senza premio.


Il Bandello al magnifico messer
Gian Giacomo Gallarate


Vero esser si truova quasi ordinariamente quell’antico proverbio che dire tutto ’l dí si suole: che «la troppa familiaritá partorisce disprezzamento»; ed è sovente cagione che il minore non porta la debita riverenza al suo superiore che deverebbe, anzi con una prosuntuosa e temeraria confidenza casca talora in gravissimi errori. Per questo deverebbero coloro che altrui governano non si far tanto privati e domestichi con i suoi soggetti, che gli dessero occasione di tenergli in poco conto e presumere di fare de le sconce e mal fatte cose. Ed altresí denno i servidori, quando si conoscono esser dai padroni amati, governarsi prudentemente e sempre piú umili diventare, pigliando de la dimestichezza dei superiori meno ardire che sia possibile. Si parlava di questa materia in casa de la gentilissima e dotta signora Cecilia Gallerana, contessa Bergamina, e varie cose si dicevano, quando