Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XLIX
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Sogliono molto spesso questi uomini che si dilettano d’aver, ad ogni cosa che si dica, qualche bel motto a proposito, dire che chi con pazzi s’impaccia ha sempre novelle fresche. E certo di rado avviene che costoro, i quali presumono governar i pazzi, non si trovino ingannati. Onde a me pare che quel ceretano, che andava per la Italia vendendo il senno, avesse uno svegliato e galante cervello. Egli, come arrivava in una villa o cittá, se n’andava in piazza e montava sopra un banco e, cominciando a sonar la lira, congregava il popolo e poi vendeva loro polveri di varii effetti, ogli, savonetti ed altre simili cosette. Poi quando aveva raccolti quei danari che poteva, ricominciando a sonar la lira, diceva loro che aveva la piú bella cosa del mondo da vendere, ma perciò che era di tanta valuta che danari non l’averiano potuta pagare, che voleva farne loro cortesemente un dono. Ed in questo, di seno cavatosi uno spago d’otto o nove braccia, diceva quanto piú altamente poteva: –Signori miei, eccovi il senno ch’io vi vendo, anzi pur che vi dono, ché di questo non voglio danari da nessuno. State lontani di continovo da ogni pazzo quanto è lungo questo spago, ed a modo nessuno non ve gli lasciate accostare, e vedrete il gran guadagno che voi farete, servando quanto io vi dico. Sappiate che con i pazzi poco si può guadagnare e perdere molto. – E questo era il senno che vendeva il ceretano. Se cosí avesse saputo fare quel solenne predicatore, del quale questi dí in casa vostra parlò l’erudito giovine, messer Gian Battista Oddo da Matelica, egli non averia fatto ridere il popolo del modo che a Viterbo fece. Ed avendomi voi mandato che io come la cosa fu da lui narrata scrivessi, non ho voluto mancare d’ubidirvi, e darla fuori sotto il nome vostro, a ciò che nessuno mi presuma riprendere. State sano.Novella XLIX
Non è nessuno che non sappia come ne le cittá di Romagna, de la Marca e del Patrimonio di San Pietro e lá intorno si viva, essendovi quasi di continovo civili discordie, che di rado senza spargimento di gran sangue se ne stanno. Onde, essendo ne la cittá di Viterbo grandissima dissensione, e di giá molti essendo stati crudelmente ammazzati e molte case rovinate ed arse, vi capitò un solennissimo predicatore de l’ordine di san Domenico, il quale, intese le civili discordie che quivi erano, s’adoperò pur assai per comporre tra loro la pace; ma egli, come si dice, pestava l’acqua nel mortaio. Dolente adunque oltra modo il buon frate che la pace non si facesse, e veggendo che i capi de le parti erano assai piú arrabbiati e pieni d’odio e rancore che non erano i popoli, deliberò publicamente predicare del buono de la pace e veder con qualche arte d’indurre il popolo a la concordia, portando fermissima openione che se il popolo si poteva disponere a la pace, poi di leggero i capi si sarebbero rappacificati. Era un pazzo in Viterbo, per tutta la cittá notissimo per le sue pazzie che faceva, che tutte erano in far ridere chi le vedeva, e da tutti si chiamava Marcone. Egli assai sovente nel convento di Santa Maria in Grado si riparava, spazzando talora la chiesa e talora il chiostro, ed il sagrestano gli dava poi del pane e qualche altra cosetta da vivere. Il buon predicatore, avendo piú volte veduto questo pazzo ed avvertito a le semplicitá che faceva, se lo fece menar a la camera e molto accarezzollo e gli diede bene da mangiare e da bere. Ed avendoselo fatto assai domestico, lo ammaestrò piú volte di quanto voleva che essendo poi in chiesa domandato, rispondesse, e che gridasse: – Pace, pace! – Marcone, due e tre volte in camera del padre essendo interrogato che cosa voleva, rispondeva gridando: – Pace, pace! – Venuta la domenica, montato il predicatore in pergamo, fece una bellissima predicazione de la pace, dimostrando come ella ne unisce a Dio e di quanti altri beni ella è cagione, e che ciascuno la deve desiare. E qui entrato in gran fervore e dicendo che fin ai pazzi desiderano la pace, si voltò a Marcone, ch’era innanzi al pergamo, e disse: – E tu, Marcone, che vuoi, che desideri, figliuolo? Che Dio ti benedica! di’ liberamente ciò che tu desideri. – Marcone, che non aveva cervello per una lumaca e di mente gli era uscito ciò che imparato aveva, e forse era da qualche appetito stimolato, gridò ad alta voce: – Messere, io vorrei metter il diavolo ne l’inferno. – Ma lo disse senza chiosa né velamento, a la spiegata, parlando naturalmente. Il che mosse tutto il popolo a ridere, e fu necessario che il buon frate di pergamo senza far frutto smontasse ed imparasse un’altra volta a non far fondamento su parole di pazzi.
Non è molto che essendo alloggiato in casa vostra il gentilissimo messer Bonifazio Aldigeri, venendo io a visitarlo, vi ritrovai il nostro messer Francesco Tanzio. E sedendo con alcuni altri sotto il pergolato del vostro amenissimo giardino, s’entrò a ragionare di quanta forza sia appo tutte le nazioni la vertú. Onde da vostro zio messer Elia Sartirana fu detto di quei ladroni, che, tratti da la fama del maggiore Scipione Affricano, essendo egli bandito a Linterno, l’andarono a visitare per baciar la mano che l’Affrica aveva debellata. E veramente de la vertú il poter è molto grande, perciò che non solamente tira i buoni al suo amore, ma alletta ancora i tristi a la sua riverenza ed osservanza; del che infiniti essempi addurre si potrebbero. In simili ragionamenti adunque il Tanzio una istorietta narrò, ove leggiadramente ne fece vedere che appo genti barbare un atto vertuoso assai spesso è in prezio. Io essa novella subito scrissi, con pensiero che, essendo nel vostro giardino nata, ella fosse vostra. E cosí con questa mia ve la mando e dono.Novella