Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella L
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ti benedica! di’ liberamente ciò che tu desideri. – Marcone, che non aveva cervello per una lumaca e di mente gli era uscito ciò che imparato aveva, e forse era da qualche appetito stimolato, gridò ad alta voce: – Messere, io vorrei metter il diavolo ne l’inferno. – Ma lo disse senza chiosa né velamento, a la spiegata, parlando naturalmente. Il che mosse tutto il popolo a ridere, e fu necessario che il buon frate di pergamo senza far frutto smontasse ed imparasse un’altra volta a non far fondamento su parole di pazzi.
Non è molto che essendo alloggiato in casa vostra il gentilissimo messer Bonifazio Aldigeri, venendo io a visitarlo, vi ritrovai il nostro messer Francesco Tanzio. E sedendo con alcuni altri sotto il pergolato del vostro amenissimo giardino, s’entrò a ragionare di quanta forza sia appo tutte le nazioni la vertú. Onde da vostro zio messer Elia Sartirana fu detto di quei ladroni, che, tratti da la fama del maggiore Scipione Affricano, essendo egli bandito a Linterno, l’andarono a visitare per baciar la mano che l’Affrica aveva debellata. E veramente de la vertú il poter è molto grande, perciò che non solamente tira i buoni al suo amore, ma alletta ancora i tristi a la sua riverenza ed osservanza; del che infiniti essempi addurre si potrebbero. In simili ragionamenti adunque il Tanzio una istorietta narrò, ove leggiadramente ne fece vedere che appo genti barbare un atto vertuoso assai spesso è in prezio. Io essa novella subito scrissi, con pensiero che, essendo nel vostro giardino nata, ella fosse vostra. E cosí con questa mia ve la mando e dono.Novella L
Non ha ancora molti anni che in Lentiscosa, villa del reame di Napoli, fu un giovine di basso sangue e povero, il quale d’una villanella sua pari fieramente s’innamorò, e per acquistar l’amore di quella, faceva ogni cosa a lui possibile; onde la giovane cominciò ad amar lui. Essendo di pari voluntá, si maritarono insieme e fecero le lor povere e picciole nozze molto allegramente. Vivevano con gran pace insieme, e col sudore e fatica de le mani loro si procacciavano il vivere, non avendo altro al mondo che una picciola casetta, che era de la donna. Ora, essendo il tempo de la segatura e tutti dui essendo condotti a mieter grano da un massaro in un campo vicino al mare, avendo sul mezzodí la giovane un grandissimo caldo, e per la durata fatica del continovo tagliare posta giú la picciola falce, se n’andò vicino al lito e sotto l’ombra d’un albero si pose a sedere. Quivi da la stracchezza e dal sonno vinta, godendo un soave venticello che le crespanti onde del mare leggermente moveva, s’addormentò. Né guari stette che soppragiunsero certi corsari da Tunisi, i quali, discesi in terra, videro la giovane dormire, e, quella presa e chiusale la bocca ché non gridasse, in galera la portarono; e ritirati alquanto in mare, vi si fermarono, forse per vedere se altri prender potevano. Il marito, accorgendosi la moglie non esser con gli altri lavoratori, poi che l’ebbe assai chiamata e ricercata indarno, rivoltatosi al mare e la galera veduta, s’imaginò il fatto come stava, e tanto piú che i corsari mostravano a quei di terra la donna, la quale pareva pure a Petriello, – ché cosí aveva nome l’innamorato marito, – che la moglie sua fosse. Il perché, senza indugio spogliatosi, in mare si gittò e cominciò, nòtando, andare a la volta dei corsari, ove in poco d’ora da amore aiutato pervenne. I mori forte si meravigliarono di lui e gli domandarono chi egli si fosse e ciò che andava cercando. Egli, che valente notatore era, fermatosi su l’acqua e tuttavia a la moglie guardando, che in poppa piangeva, in questa guisa gli rispose: – Io sono un povero giovine, marito di quella donna che voi in questa ora avete in terra presa e che in poppa lagrimante dimora, la quale, poi che io conobbi, sempre ho amata piú che la vita mia, ed amo ed amerò sempre fin che viverò. Onde, se alcuno di voi ha moglie, o se mai ha provato che cosa sia amore o sentito che tormento è vedersi privare de la donna amata, io vi prego caldissimamente, e il prego vaglia mille, che sia di piacer vostro di restituirmi la moglie, ché eternamente ve ne sarò obligatissimo. Se io avessi modo di riscattarla, io v’impegno la fede mia che in dono non ve la chiederei, sapendo che voi di questo essercizio vivete; ma io non ho cosa che si sia al mondo, e con il lavorare ella ed io sostentavamo la nostra povera vita, ché il guadagno che di giorno in giorno facevamo ne dava il vivere. E se non vi pare di donarmela, vi supplico a volermi seco menar via, perché, con lei essendo e lavorando e facendo tutto quello che a voi piacerá, io viverò allegramente e volentieri m’affaticarò, né sentirò il peso de la servitú. Ben v’affermo che viver senza lei tanto a me saria possibile, quanto se la vita levata mi fosse. – Piacque sommamente ai corsari il parlar di Petriello, a cui vi s’aggiungevano i prieghi e le lagrime de la sua moglie; e mossi a pietá, quello accettarono in galera ed assai bene vestirono, restituendogli l’amata moglie, e fin che pervennero a Tunisi gli fecero buona compagnia. Giunti poi a Tunisi, donarono i dui cristiani al loro re, al quale narrarono il modo col quale avuti gli avevano. Al re moro, quantunque fosse nemico de la nostra legge, piacque il dono, e tanto si meravigliò de la vertú ed amore coniugale del buon Petriello che, poi che con onorate parole l’ebbe commendato, quello con la moglie fece liberi. E pregandolo che seco volesse alquanto di tempo restare, gli ordinò un buon salario. Petriello, per non parere ingrato de la ricevuta libertá, alcuni anni si stette col re e sí bene lo serví che alfine, fatto ricco, ebbe licenza con la carissima moglie di tornar a casa. Onde, essendosi nudo e mal contento da Lentiscosa partito, per la cortesia del re moro, ricco ed allegro vi ritornò; di modo che a le volte tra gente barbara si trovano uomini che la vertú ammirano ed amano, come tra noi sono assai spesso chi la vituperano e biasimano.
Se tutte le beffe che le mogli fanno ai mariti, e quelle che essi fanno a le donne, fossero scritte a la giornata come accadono, io certamente mi fo a credere che tutta la carta che a Fabriano giá mai si fece, e tuttavia si fa, non sarebbe bastante a riceverle, tante e tali sono. E ben che si veggia questa e quella donna, quale svenata, quale strangolata e quale di veleno estinta, e medesimamente i mariti siano ben sovente col ferro, col laccio e col veleno levati da le scaltrite mogli di vita e con altri occulti inganni morti, non è perciò che ogni dí ancora non cerchino i buoni mariti risparmiar quello di casa e logorare l’altrui, e vedere se quante donne gli capitano a le mani hanno cosa alcuna di piú o di meglio de le mogli loro. Le donne altresí non crediate che stiano con le mani a la cintola, che anco elle non si procaccino quanto ponno di non istar indarno; di modo che si può dire dei mariti e de le maritate quello che degli assassini da strada e dei ladri si dice. Veggiono eglino tutto il dí mozzar il capo a quelli, impiccare questi, squartare ed abbrusciare quegli altri, e le forche per tutto trovano carche di malandrini e malfattori; e nondimeno peggio fanno che prima: argomento, nel vero, che fortemente siano da la natura inclinati al mal operare, ma non giá sforzati, perciò che per noi stessi, volendo, possiamo lasciare le sconce opere e viver politicamente, come a uomini da bene si conviene. Ora, essendovi una bella compagnia di vertuose persone, fuor di Brescia andate a diporto a San Gottardo e quivi desinato, si cominciò dopoi a ragionar de le beffe che da le donne o a le donne si fanno. Onde, essendosi molte cose dette, il gentilissimo e vertuoso messer Antonio Cavriuolo, che cosí bene come io conoscete, narrò a proposito de le beffe una piacevole novella a Brescia avvenuta, che subito fu da me, ché de la brigata io era, scritta. Ora quella vi mando e dono, avendomi voi dal vostro amorevole Brivio quella fatto ricercare. State sano.Novella