Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LXVI
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la bertuccia con quegli atti ridicoli, erano tutti sforzati a ridere, gabbandosi l’uno e l’altro de la paura che avuta avevano.
Egli è pur mirabil cosa il considerar la malignitá di molti uomini, i quali in modo alcuno non vogliono astenersi da far le sconce e vituperose opere, ancor che tutto il dí vedano uno esser impiccato; uno, tagliatogli il capo, esser smembrato in quattro parti; altri esser abbrusciati ed altri col tormento crudelissimo de la rota esser fatti penare, morendo miseramente, ed altri con mille altre specie di suplicii perder la vita, che a noi deveria sovra ogni tesoro terreno esser cara: il che c’insegna la natura, la quale ci spinge con tutti i modi che a noi sono possibili. Quella debbiamo conservare, come gli animali senza ragione creati fanno, i quali piú che ponno, per non lasciarsi prendere od ammazzare, con quelle armi si difendono che loro la natura ha concesso. Era stato, non è molto, in Tolosa da quel senato fatto squartare uno di sangue gentiluomo per suoi misfatti che commessi aveva; il quale in vero aveva vituperosissimamente tralignato, per i suoi pessimi costumi, da l’antica nobiltá dei suoi maggiori. Del caso di costui ragionandosi in una buona compagnia di molte persone, vi si ritrovò uno mercadante inglese, per nome chiamato Edimondo Eboracense, il quale praticava molto spesso in Francia e massimamente a Bordeos, ove ogni anno, quando è pace tra Francia ed Inghilterra, suole venire per comprar vini e condurgli a Londra. Egli in persona vien qui su l’Agenense a Bassens, al Porto Santa Maria, e qua intorno in queste contrade, ove si ricogliono i piú generosi vini de l’Aquitania, e gli va scegliendo a modo suo. Qui adunque narrò egli certe magre astuzie, che volle usar un mercadante di Santonge, e la punizione che ne guadagnò. Ora essa novella ho voluto, al nome vostro intitolata, donarvi, a ciò che per effetto conosciate che io di voi e di tante vostre cortesie a me usate sono ricordevole. E veramente la natura v’ha fatto tale, quale a me pare che ogni leale e da bene mercadante deveria sforzarsi d’essere. Feliciti nostro signor Iddio tutte le cose vostre. State sano.Novella LXVI
Fu un mercadante fiorentino, che teneva casa in Parigi e trafficava in molti luoghi, non solamente in Francia, ma in Italia ed in Ispagna anco aveva pratiche con mercadanti. E volendo egli levar casa da Parigi e ritornar a Firenze, cominciò a ristringer le sue ragione e ricoglier piú danari che poteva. E so io che buona somma per lettere di cambio ne ritrasse da Londra, e gli fece pagar ai suoi agenti a Firenze. Egli aveva uno suo giovine toscano, che lungo tempo adoperato aveva in riscuoter danari in varii luoghi, al quale, tra molti debitori che gli diede in lista, vi pose uno mercadante di Santonge, uomo vecchio ma di mala vita e che faceva fascio d’ogni erba, e per suoi misfatti era stato stroppiato d’una gamba. Egli era debitore di mille ducati del mercadante fiorentino, e giá di molti mesi il termine del pagamento era passato. Onde, avendo inteso che il giovine deveva in breve venire a Santes per riscuotergli, e non si trovando alora il modo di pagare tanta somma a un tratto, si lambiccava nel cervello, chimerizzando di che modo potesse fare a non essere astretto a pagar cosí tosto i mille ducati. Egli conosceva benissimo il giovine, perché altre volte erano praticati insieme, cosí in Santes come in altri luoghi, e tra gli altri a la Rocella. Quivi, avendo i sergenti de la corte assalito il vecchio per metterlo in prigione, era seco Giovan Battista, – ché tal era il nome del giovine, – il quale, dato di mano a l’arme, fece fuggire egli solo tutta quella sbirraglia e gli levò da le mani il vecchio, il quale, cosí zoppo come era, se n’uscí fuori de la Rocella e disse a Gian Battista che facesse il simile. Il giovine, conoscendo il periglio in che era se fosse stato posto in mano de la giustizia, deliberò lasciarsi consigliare. Egli aveva il suo cavallo e la valige in casa d’un borghese de la Rocella suo grand’amico, e sapeva il tutto esser in buone mani e che nulla si perderebbe; onde, seguendo le pedate del veglio, trovò che egli era in una osteria fuor de la Rocella. E trovandosi Gian Battista senza un quattrino a dosso, ché i danari aveva chiavati dentro la valige, richiese il vecchio che lo accommodasse d’otto o dieci ducati per tòrre un cavallo a nolo e farsi le spese. Ebbe dieci ducati, e del ricevuto ne fece una cedola al vecchio, obligandosi di rendergli ad ogni di lui domanda. Cosí montarono a cavallo e andarono fuori de la giurisdizione de la Rocella, dove il fiorentino mandò uno con sue lettere a l’amico che aveva il cavallo e la valige, e cosí riebbe il tutto. Questo era avvenuto di circa dui anni innanzi che egli andasse a Santes per riscuoter i mille ducati, e non aveva ancora pagati i dieci ducati presi in prestito. V’ho fatta questa poca narrazione, perché viene molto al proposito di quanto sono per narrarvi. Chimerizzando adunque il vecchio, e pensando mille cautele e modi per ischifare il pagamento in cosí poco tempo, gli venne in mente la cedola del giovine, e con il mezzo di quella pensò di prevalersi e fargli un’alta beffa. Ma, come si suol dire, una ne pensa il ghiotto e l’altra il tavernaro. Arrivato Gian Battista a Santes, andò al suo solito albergo, ove, prese le sue cedule, cominciò a parlare con i debitori del suo maestro e pregargli a voler metter ad ordine i devuti danari, a ciò che non avesse poi cagione di perder tempo ed intertenersi piú del dovere a Santes. Ritrovò anco il vecchio zoppo e gli disse il medesimo; dal quale ebbe buone parole. Ma il ribaldo vecchio, che aveva fatto conto senza l’oste, s’aveva imaginato, per vigore de la cedula dei dieci ducati prestati fuori de la Rocella a Giovan Battista, farlo da la giustizia sostenere, non ad altro fine se non per menar il pagamento dei mille ducati piú in lungo che poteva. Sperava anco ridurre la cosa dal civile al criminale, e con questo trascorrere cinque o sette mesi senza pagare. Andò adunque al luogotenente de la cittá e gli disse che erano passati circa dui anni che egli aveva prestati alcuni danari ad un giovine italiano e che ancora non era stato pagato; ma che ora, essendo esso debitore ne la cittá, lo pregava a dargli alcuni dei sergenti de la corte per farlo ritenere, allegandolo straniero e fuggitivo, e le mostrò la cedola. Il luogotenente, che era grande amico del zoppo, senza altrimenti considerar il tinore de la cedola, gli concesse la presa del corpo del giovine, senza far menzione de la quantitá dei danari, ma che per debiti fosse preso come straniero e fuggitivo. Avuto cotal mandato, il vecchio prese sei sergenti e loro consegnò lo scritto, e gli mostrò il giovine che voleva che mettessero prigione. Per esser stato Gian Battista lungo tempo in Santes in diverse volte, era da tutti assai ben conosciuto e si sapeva per tutto che egli era animoso e gagliardo, e che l’arme gli stavano benissimo in mano, essendosi alcuna volta ritrovato in qualche mischia di notte e di giorno, ove valorosamente s’era diportato e reso di sé buonissimo conto. Credeva adunque il malvagio vecchio che, subito che il giovine si vedeva dagli sbirri attorniato, devesse cacciar mano a l’arme, e nel diffendersi, per non lasciarsi far prigione, ferire alcuno di quelli de la corte ed a la fine esser imprigionato, di modo che si venisse a proceder contra di lui de crimine laesae maiestatis, per aver date de le ferite ai sergenti reali. Ma il pensiero a questa volta gli andò fallito. Erano alcuni giovini amici di Gian Battista seco, che per la cittá l’accompagnavano, e andavano ragionando di varie cose. Gli sbirri, che per l’ordinario non son troppo valenti ma timidi e poltroni, incontrarono piú volte il giovine né mai ebbero ardire di porli le mani a dosso, sí perché lo conoscevano valente e sí ancora perché lo vedevano benissimo accompagnato; nientedimeno gli andavano facendo la ruota attorno. Era tra quelli de la compagnia del giovine uno, che pochi dí innanzi aveva fatto questione con uno e gli aveva date tre ferite, ma non perigliose de la vita. Egli, veggendo gli sbirri che l’andavano attorniando, disse ai compagni: – Questi sergenti gaglioffi mi vanno facendo la ruota per ghermirmi per la mischia di questi dí; ma se mi s’accostano, io darò loro di quello che non vanno forse cercando. – A queste parole Gian Battista, rivolto ai sergenti, disse loro molto arditamente: – Compagni, volete voi nulla, che ci andate cosí attorniando? – I sergenti alora con le berrette in mano: – Signore, – risposero, – noi abbiamo commissione da la corte di condurvi in prigione. – Me? – disse Giovan Battista. – Se la cosa è criminale, non v’accostate, perché, al corpo di Cristo, io vi darò de le croste e vi gratterò la rogna, insegnandovi a trescar con i par miei. Se la cosa è civile, io liberamente verrò al signor luogotenente a presentarmi. – Ella è, – soggiunsero gli sbirri, – per debiti che in questa cittá devete pagare. – Oh, questo è un nuovo caso! – disse il giovane. – Io son qui per riscuoter danari e debbo aver una gran somma, e mò si vorrá ch’io sia il debitore! Andate, andate, ch’io vengo mò mò a Palazzo. – Partiti gli sbirri, trovarono il vecchio che gli attendeva, il quale, come gli vide senza il prigionero, domandò loro per qual cagione non avevano preso il giovane. Eglino si scusarono che sempre l’avevano trovato con buona compagnia. Il maledetto vecchio, veggendo le sue volpine malizie non gli esser riuscite, si trovò molto di mala voglia e, quasi presago de la sopravegnente rovina, non sapeva che farsi. Gian Battista se n’andò di lungo a Palazzo e, presentatosi al giudice, disse: – Signore, io sono il tale, cui contra concesso avete presa di corpo. Eccomi per sodisfar a tutto quello di che con ragione sarò debitore. – Il giudice, veggendo il buon aspetto del giovane e cosí ben vestito, gli disse: – Gentiluomo, io ho data la commessione ad instanzia del tal mercadante. – Fu fatto venir il zoppo in palazzo, che vi venne come la biscia a l’incanto. Alora Gian Battista, rivolto al giudice, disse: – A ciò che voi conosciate la malignitá e ribalderia di costui, eccovi la cedula di sua mano, sottoscritta dal notaro e testimonii, come egli è debitore al mio maestro di mille ducati. Eccovi la mia procura di riscuotergli. E perché conosciate che io non son fuggitivo e confesso essergli debitore di dieci ducati, leggete questo mio scritto, ove da una parte del foglio scritto è il suo debito, ed a l’incontro al credito suo ho posto i dieci ducati avuti da lui in prestito, – ché queste scritture portava seco in petto il giovane. Il povero vecchio nulla seppe negare, e stava mutolo né sapeva che dire. Ad instanzia poi del giovine fu il vecchio imprigionato, non avendo chi li facesse securtá. Protestò poi Gian Battista dei danni ed interessi e de l’onore, per esser accusato fuggitivo. Ed in somma la cosa andò di modo che il misero vecchio fatto fu prigionero e fu astretto, se volle uscire, a pagar tutto il debito con danni ed interessi, e publicamente disdirsi di aver appellato il giovane «fuggitivo», di maniera che l’inganno tornò sovra l’ingannatore. E cosí si vide verificato il proverbio che dice: «Chi ha a far con tósco, non vuol esser losco».
Tra tutte le vertú che ogni uomo rendono commendabile, o sia privato o sia in degnitá di magistrati costituto o padrone e signore di popoli, io porto ferma openione che la gratitudine sia una di quelle che di modo informi ed ammaestri le menti nostre, che di leggero faccia la via a tutte l’altre vertú morali; perché impossibile mi pare d’esser grato dei beneficii ricevuti, se l’uomo anco non ha quell’altre parti che ad esser da bene se gli convengono. E secondo che l’esser grato è cosa onorata e lodevole, cosí per lo contrario l’esser ingrato è vizio abominevole e grandemente vituperoso. Onde santamente lasciò scritto un dotto e santo dottore, dicendo che il peccato de l’ingratitudine