Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte III/Novella X
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Se papa Lione decimo pontefice massimo, nel principio che Martino Lutero cominciò a sparger il pestifero veleno de le sue eresie, avesse prestato benigne orecchie al maestro del sacro palazzo, era cosa assai facile ad ammorzar quelle nascenti fiamme, che ora tanto sono accresciute, che, se Dio non ci mette la mano, elle sono più tosto per pigliar accrescimento che per iscemarsi. E certamente io non so già che spirito fosse quello di Lutero, che tanti ammirano come se egli fosse stato qualche acuto dialettico, ingegnoso filosofo o profondo teologo, non avendo egli in tante varie sue sciocchezze trovato mai da sè una sola ragione almeno apparente, ma rinnovate le false openioni da tanti sacri concilii generali ed ultimamente da quello di Costanza riprobate e dannate. Chè il seguito che egli ha, da altro non viene se non che egli e i suoi seguaci aprono la via d’un vivere licenzioso e lascivo. Egli nel vero è da esser biasimato, e in conto alcuno non si de’ dar udienza a le sue favole che tutte sono senza vero fondamento. Non negherò già che la mala vita de le persone ecclesiastiche non sia di scandalo a le menti non ben fondate; ma non per questo debbiamo dai nostri maggiori tralignare. Deveriano anco questi indiscreti ed ignoranti frati, quando sono in pergamo, diligentemente avvertire che non dicessero cosa al popolo che potesse partorir scandalo, e secondo che devono incitare gli auditori a divozione, non gli provocare al rider dissoluto, che è cagione che a’ nostri giorni le cose de la fede sono in poco prezzo. Io non vo’ per ora dire degli errori che gli idioti spesso in pergamo dicono, ma dirò di quelli che, poco discreti, vanno dietro a certe favole che mettono le predicazioni in deriso: come in Pavia intervenne a fra Bernardino da Feltro, per quello ch’io sentii un dì narrare a fra Filippo da San Colombano, frate minore dai zoccoli, il quale nel loro luogo del Giardino in Milano, essendo in compagnia d’alcuni gentiluomini, per dargli un poco di ricreazione, narrò la cosa come fu, essendo a quei giorni egli scolare legista in Pavia. E perchè è cosa da notare, l’ho voluta mandare a donarvela a ciò che, secondo che d’un sangue siamo, siate anco partecipe de le mie novelle. State sano.
Devete, signori miei, sapere che, essendo io ancora secolare e stando in Pavia ad udir le leggi civili, frate Bernardino da Feltro, uomo ne la religione nostra di grandissima stima, predicò tutto un anno nella chiesa maggiore di Pavia, con tanto concorso che maggiore mai non fu in quella città veduto. Egli aveva l’anno innanzi predicato in Brescia e fatto publicamente sulla piazza ardere quei capelli morti che tutte le donne avevano in diverse fogge in capo, che per accrescer la nativa loro beltà solevano portare, ed arso anco simili altre vanità donnesche. Fece anco arder quanti libri degli epigrammi di Marziale erano in quella città, e molte altre cose degne di memoria fece. Ora essendo egli il giorno del nostro serafico padre san Francesco in pergamo in Pavia, ove tutto il popolo era concorso, entrò a dire delle molte vertuti di san Francesco; ed avendone detto pur assai e narrati molti miracoli che in vita e dopo la morte fatti aveva, gli diede tutte quelle lodi, eccellenze e degnità che a tanta santità di così glorioso padre convenivano. Ed avendo con efficacissime ragioni, autorità ed essempi provato che egli era pieno di tutte le grazie e tutto serafico ed ardente di carità, entrò in un grandissimo fervore disse: – Che seggio ti daremo oggi nel cielo, padre mio santissimo? ove ti metteremo, o vaso pieno di ogni grazia? che luogo trovaremo noi a tanta santità? – E cominciando da le vergini, ascese ai confessori, ai martiri, agli apostoli, a san Giovanni Battista ed altri profeti e patriarchi, dimostrando tuttavia che più onorato luogo san Francesco meritava. Ed in questo cominciò, la voce inalzando, a dire: – O santo veramente gloriosissimo, le cui santissime doti e singolarissimi meriti e la conformità de la tua vita a Cristo sovra tutti gli altri santi t’essaltano, qual luogo trovaremo a tanta eccellenza convenevole? dimmi, popolo mio, ove lo metteremo? ditemi voi, signori scolari che di elevato ingegno sète, dove porremo questo santissimo santo? – In questo messer Paolo Taegio, alora scolare nelle leggi e oggi dottore in Milano famosissimo, che sedeva suso uno scanno di rimpetto al pergamo, essendo fastidito dalle inutili e indiscrete ciance del frate e forse dubitando che non lo volesse metter sopra od almeno a paro della santa Trinità, levandosi in piedi, preso lo scanno con due mani e in alto levandolo, disse sì forte che fu da tutto il popolo udito: – Padre mio, di grazia, non v’affaticate più in cercar seggio a san Francesco. Eccovi il mio scanno: mettetelo qui su e potrà sedere, chè io me ne vo. – E partendosi, fu cagione che ciascuno si levò e il popolo di chiesa si partì. Onde fu mestieri che il feltrino, senza trovar luogo al suo santo, se ne dismontasse del pergamo e tutto confuso a San Giacomo se ne ritornasse. Onde si vuol ben considerare ciò che in pergamo l’uomo dice, a ciò che l’indiscrete predicazioni non facciano venir in deriso il verbo di Dio.
Andando io questo settembre prossimamente passato a Bargone, castello del signor Manfredo vostro fratello, per alcuni affari che m’occorrevano negoziare con la signora Ginevra Bentivoglia vostra cognata, capitai non so come a Cortemaggiore, passando di luogo, non sapendo ancora ove io mi fossi. E volendo ad uno paesano domandar il nome del luogo, voi in quello arrivaste venendo da la caccia, nè voleste che più innanzi io cavalcassi. E non bastandovi tenermi quel giorno vosco in rocca, mi vi teneste cinque dì continovi, facendomi quelle carezze che non ad un par mio, vostro antico domestico e servidore, ma che sarebbero state assai ad ogni gentiluomo gran signore. Nè io ora voglio raccontar le sorti dei piaceri, dei trastulli e dei giuochi che si fecero con soddisfazione e piacer di tutti. E perchè ne le case e corti dei signori ci sono sempre diversi ingegni d’uomini e tutti non ponno esser sagaci e avveduti, il vostro che altri Polito e altri chiamano Mosca, (che mi pare che si deverebbe chiamar più tosto «ragno», perchè ha le gambe sottili e lunghe e va sempre in punta di piedi), ci diede più volte materia di ridere perchè, non si volendo veder un minimo peluzzo