Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte I/Novella XXXVII
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uomini. Era ne la detta brigata messer Carlo Attellano, che ottimamente conoscete quanto in ogni compagnia è festevole e sempre pieno di novelle. Egli al proposito di cui si ragionava narrò una novella che tutti gli ascoltanti empì d’estrema meraviglia e di stupore. E in vero il caso è mirabile e degno per la sua stranezza di memoria. Onde avendolo scritto precisamente sì come l’Attellano il narrò, a voi lo mando e dono. E perchè so che voi non potrete stare di non mostrarlo a la signora consorte, mi vorrei ritrovar in un cantone per veder ciò ch’ella farà e udir quanto dirà. State sano.
Che la bella Faustina, signori miei, s’innamorasse del gladiatore io non reputo gran cosa, perciò che poteva essere che quel gladiatore fosse bello e membruto giovine, che deveva far la mostra d’esser un buon copertoio da donna; e se non fosse che pur essa Faustina era figliuola di tanto da bene imperadore e moglie del da benissimo Marco che anco era imperadore, a me non parrebbe così gran fatto che le fosse venuta voglia di sottoporsi ad un ardito e bel compagno, essendo ella avvezza a varie sorti d’uomini sottoporsi senza rispetto veruno. Ma l’istoria che ora io intendo contarvi credo ben io che strana vi parrà e quasi non la potrete credere. Quando io stetti in corte del re cristianissimo ove molti mesi dimorai, intesi l’istoria che ora vi vo’ dire, ma di mente mi son usciti i nomi di coloro che intervengono in essa istoria. Fu adunque in Rovano, città de le prime di Normandia, un cittadino assai ricco, il quale ebbe per moglie una giovane dei principali de la città, che era riputata la più bella ed aggraziata che in Rovano fosse. Amava il giovine la moglie fuor di modo, e perchè bella e piacevole la vedeva, cominciò a dubitare che, secondo che a lui estremamente piaceva e che egli ardentissimamente l’amava, anco quella a tutti quelli che la vedevano piacesse e che ciascuno focosamente l’amasse. Onde a poco a poco, non se n’accorgendo, divenne tanto de la moglie geloso che temeva d’ogni cosa e gli pareva che le mosche che per l’aria volavano la devessino portar via. Nondimeno con tutta questa gelosia le lasciava usar di quella libertà che per tutta Francia le donne communemente usano. Voi devete sapere che il morbo de la lepra, che noi domandiamo il «mal di san Lazaro», nel regno de la Francia è molto frequente, e quasi non si trova villaggio ove di questi lazarosi non sia un ospidale, ove tutti gli ammorbati di quel male, uomini e donne, sono ridutti ad abitare. Avvenne un dì che essendo un drappello di donne in compagnia, che si cominciò a parlar di questi leprosi, ed una di loro disse a le compagne che aveva da buon luogo inteso che tutti gli uomini leprosi appetiscano più il giacersi con le donne che altri uomini che siano, e che generalmente sono lussuriosissimi e durano molto più degli altri ne la fatica del macinare. Era la moglie del nostro geloso di brigata con l’altre a questo ragionamento, la quale udendo dir questa cosa si sentì in modo destare il suo concupiscibile appetito di provare un di questi leprosi e veder se erano sì valenti nel servigio de le donne come si diceva, che le pareva tanto non poter vivere che si riducesse a la prova. Onde restò sì accesa di cotal desiderio che in altro non pensava giorno e notte, e un’ora le sembrava un anno di ritrovarsi con effetto a questo cimento. E poi che assai ci ebbe pensato su, tanto fu l’ingordo e libidinoso appetito che, vinta e superata in tutto da quello, determinò cavarsi questa sua sfrenata voglia, avvenissene ciò che si volesse. Fatta questa deliberazione, non attendeva ad altro che a far la scelta d’uno tra quanti ne vedeva tutto il dì che più degli altri le paresse nerboso e valente. E vedutone uno assai giovine che mostrava esser molto gagliardo, ebbe modo di domesticarsi seco e dar compimento ai disonesti e vituperosi suoi appetiti. Nè contenta d’una volta, più e più volte seco si giacque. E perchè talora una cosa fuor di misura desiderata come s’è ottenuta viene in fastidio, la povera e meschina donna non dopo molto, – o che il lazaroso non riuscisse così valente come ella imaginato s’aveva, o che pur le venisse orrore d’essersi mischiata con un ammorbato di morbo tanto contagioso, la cui conversazione tutto il mondo aborre e fugge, nè si permette che possano abitar ne le terre ma stiano separati da tutti, – dubitando aver presa quella fetida ed abominevol infermità, si ritrovò la più mal contenta donna del mondo; e non sapendo come fare, viveva tanto di mala voglia che di dolore si credeva morire. Era il marito di lei, in quel tempo ch’ella aveva con il lazaroso praticato, stato lontano da Rovano per suoi affari. Ella non sapendo dove dar del capo, poi che cose assai ebbe pensato sovra questo suo enorme eccesso che fatto aveva, a la fine si deliberò manifestar il fatto come stava al marito. Veramente se fu animosa e temeraria a commetter così vituperoso adulterio, non fu minor l’audacia a volersi da se stessa accusar al marito. E forse che gli voleva dire che aveva donato via una botte di vino o dato per elemosina un sacco di pane o di fave o simili cose? Ella voleva pur fargli intender una di quelle cose de le quali nessun marito, se ha sale in zucca, non può udir la peggiore, e per la quale molte città e ancor provincie son andate sossopra. Ora tornato che fu il marito a Rovano, essendo la notte nel letto con la moglie e volendo egli con lei, per esser stato fuori alquanti giorni, prendersi piacere, ella fatto buon animo, avendo di già determinato ciò che intendeva di fare, gli disse: – Marito mio caro, rimanetevi un poco ed ascoltate quanto io vo’ dirvi. – E quivi amaramente piangendo gli disse come vinta da l’appetito che sforzata l’aveva, s’era posta a giacersi carnalmente con un leproso. E con molte parole mischiate con grandissimi singhiozzi e calde lagrime gli chiedeva perdono, affermandoli che si sentiva morire se cotal follia non faceva. Per questo dubitando non esser infetta di quel pestifero morbo, non voleva che egli seco si congiungesse. Ora vedete se il manigoldo de l’Amore aveva concio il povero uomo, se la donna gli aveva messo le brache in capo; chè secondo che un altro alor alora averebbe strangolata la moglie o datele tante pugnalate che morta l’avesse, ser capocchio cominciò insieme con lei a piangere e confortarla. Nè li sofferendo il core di sgridarla, le teneva detto che facesse buon animo e che la farebbe per ogni modo medicare. E così si astenne di giacersi altrimenti con lei. Come fu venuto il nuovo giorno non volle messer caprone dar indugio a la cura de la cara moglie, ma con lei conferito quanto far intendeva perchè si risanasse, presi di molti ducati, perchè era ricchissimo, se ne montò a cavallo e cavalcò a Parigi. Quivi fece far un collegio dei più famosi ed eccellenti medici che vi fossero, e non essendo da loro conosciuto gli propose il caso come era seguito, tacendo perciò il nome de la città e de la donna, e gli pregò a studiar benissimo a ciò si potesse dar compenso a la donna. I signori medici promisero di far di modo che egli si contenteria; e poi che il caso ebbero diligentemente studiato e con molte ragioni tra loro conferito, conchiusero di commun parere che la più utile e salubre medicina, che a la donna dar si potesse, era che quella per tre o quattro mesi, ogni giorno, quante più volte poteva, con diverse persone amorosamente si prendesse piacere, perciò che ella potrebbe di leggero di tal maniera purgarsi che daria il male ad altri ed ella si sanerebbe, come dicevano anco avvenire a una donna che avesse il mal francese. Avuto ser barbagianni il salubre conseglio in scritto, pagati largamente i medici, se ne tornò tutto allegro a Rovano e disse a la sua donna: – Moglie mia, i medici dopo lunga e dottissima disputazione sono convenuti in questo, che altri siropi nè pillole nè medicine ti vogliono dare; solamente ti conviene, per tre o quattro mesi ogni dì con più uomini che tu potrai, pigliarti piacere giacendo carnalmente con loro. E quanto più gli uomini saranno diversi tanto megliore la medicina sarà. – La donna udendo ciò che il marito diceva, si pensò esser gabbata; ma veggendo che parlava sul saldo e che voleva che per ogni modo per guarir prendesse quelli siropi incarnativi, molto volentieri vi s’accordò e con effetto si diede in preda in quel tempo a tutto il mondo, e tanti ne provò quanti aver ne puotè. Che diremo noi, signori miei? Il povero geloso che non poteva sofferire che altri guardasse la moglie, si contentò ch’ella a quanti voleva facesse di sè copia. Credete voi che ella l’avesse concio di buona sorte? Nè crediate ch’egli fosse scemonnito o pazzo, chè era nel resto avveduto e faceva i fatti suoi benissimo. Ma il troppo amore che a la moglie portava gli aveva accecati gli occhi e adombrato l’animo, di modo che era sforzato in ogni cosa compiacere a quella. Pensate mò se con tanta e tal libertà se ne cavò la voglia.
Vi devereste senza dubio, signor mio, ricordar de la beffa che in Mantova fu fatta a quel nostro amico dal servidor siciliano di cui tanto si fidava, e ciò che alora il gentilissimo messer Benedetto Mondolfo ne disse al signor Carlo Uberto vostro zio. Era più in còlera esso signor Carlo de la beffa fatta che non era l’amico che ricevuta l’aveva, che ne restava con il danno e con le beffe. E in effetto la segretezza non sta se non bene in tutte le cose e massimamente ne l’imprese amorose, conoscendosi chiaramente che ogni minima paroluccia che si dica macchia assai spesso l’onore d’una donna, che è pure il più bel gioiello che esse possano avere. Ora non è molto che ragionandosi qui in Mantova ne la sala di San Sebastiano tra molti gentiluomini, di colui che sovra il tetto d’una casa passava per entrar in casa d’una sua innamorata, il molto costumato e gentil messer Gian Stefano Rozzone, che poco innanzi era tornato da la corte del re cristianissimo, narrò una breve novella che a tutti piacque. Ed avendola io scritta secondo che il Rozzone narrata l’aveva, quella vi dono e sotto il vostro nome voglio che sia letta. Voi con quella solita vostra umanità degnerete accettarla con la quale a tutti e cortese ed umano vi dimostrate, di maniera che chi vuol dir la cortesia stessa dica il cavalier Uberto e nel vero non si falla. Taccio quanto umanamente ogni dì di conseglio e aita sovvenite a coloro che deveno in duello combattere ed a voi ricorrono. Ma chi tacerà la cortesia che in casa vostra usate agli stranieri, e quanti da l’osteria ne levate avendone di continovo piena la casa? Ora io non vo’ entrare nel largo campo de le vostre lodi, essendo elle da per sè così chiare che non hanno punto bisogno de la mia penna che in lodarle s’affatichi. State sano.
L’aver udito ragionar d’uno che per di sopra il tetto se n’andava a trovar la sua amica m’ha fatto sovvenir d’un caso che, essendo io questi dì passati a la corte del re cristianissimo, intesi da signori degni di fede non esser molto che a Parigi era avvenuto. E perchè da quello si può comprendere quanto importi la segretezza ne le cose amorose e render cauto e prudente chi ama, credo che non potrà se non giovare che io ve lo dica. Sono qui molti giovini cortegiani del nostro signor marchese i quali credo che tutti deveno esser innamorati, e chi domandasse loro che nomassero quelle donne che amano, parrebbe loro che se li facesse un grandissimo torto a cercar di saper l’innamorate loro. Tuttavia io porto ferma openione che se io mi metto a conversar con loro o vero a spiar ciò che fanno e le contrade per le quali essi passano e le chiese ove vanno, che in otto giorni io saperò