Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XIII
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in Purgatorio. Io ciò che narrato vi ho, trovai già brevemente annotato in un libro di mio bisavolo, ove erano molte altre cose descritte degli accidenti che in quelle contrade accadevano.
Sentito ho molte fiate disputare qual di queste due passioni più tosto uccida un uomo, o la gioia od il dolore, avendo ciascuna de le parti le sue ragioni per approvar quanto dicevono, con dire che gli spiriti vitali in una smisurata allegrezza essalano e in un gran dolore si ristringono e si affogano. E ben che tutto il dì questa materia sia messa in campo, a me pare che ancora la lite sia sotto il giudice e che resti indecisa; chè, se bene disse il nostro gentil messer Pietro Barignano in un suo madrigale,
non è perciò che se talora l’allegrezza ha levato ad uno la vita, che anco non si truovi chi di dolor sia morto. Il che si potrebbe per essempi pur assai provare. Ma per ora, che il dolore rompa lo stame de la vita umana, mi contenterò con un sol caso avvenuto, non è molto, a una signora de l’istesso vostro nome e sangue, dimostrare. E perchè non solamente in quello si vede esser certo che la doglia ammazza l’uomo, ma anco vi si comprende l’amore immenso che la moglie al marito portava, come l’ebbi udito lo scrissi. Io era questo carnevale passato ne la vostra patria d’Asti, ove stetti alcuni dì in casa del signor conte Giovan Bartolomeo Tizzone vostro cugino e per Massimigliano Cesare di quella città governatore. Quivi de la proposta lite contrastandosi, il signor Giovanni Rotario narrò il caso di cui parlo. Onde, come ho detto, avendolo scritto, non ho voluto che senza il vertuoso vostro nome si veggia; perciò che parlando de la signora Camilla Scarampa, mi è parso convenevole che a la signora Camilla Scarampa si doni e consacri, e tanto più volentieri ve lo mando, quanto che la signora vostra madre ed il signor Aloise Scarampo vostro fratello, che furono a la narrazion presenti, affermarono la detta signora Camilla esser stata del vostro sangue, e voi per quella aver il nome che avete. Il che sarà cagione che questa mia novella non potrà esservi se non cara, e giovami credere che sarà cagione di farmi veder qualche bella vostra composizione, parendomi un’età che io non ho da voi nè lettere nè rime; e pur vi deverebbe talora sovvenire di me che tanto vi son servidore. Ma com’esser può che di così nobil morte e pietosa di questa vostra parente voi negli scritti vostri non abbiate fatto mai menzione alcuna? chè in vero merita esser tenuta viva ne la memoria de la posterità. State sana.
La disputa che voi, signori, tra voi graziosamente fatta avete, m’induce a narrarvi non una novella, chè questo nome non vo’ a la mia narrazione dare, ma un pietoso e breve caso, per il quale vederete che non solamente per soverchia allegrezza si muore, ma che anco si muor di doglia. Era del paese di Monferrato governatore il signor Costantino Aranite, cacciato del suo dominio da l’imperador dei turchi. E perchè era de la madre del marchese Guglielmo di Monferrato strettissimo parente, a Casale si ridusse, ed essendo il marchese Guglielmo ancor fanciullo, egli lo stato governava. Avvenne in quei dì che il signor Scarampo degli Scarampi, famiglia in questa città ricca e nobilissima e di veneranda antichità, che aveva per moglie una gentilissima e bella donna pur de la famiglia degli Scarampi, che Camilla si nomava, venne a questione con un gentiluomo di Monferrato per li confini de le lor castella. Aveva il signor Scarampo ne le Langhe alcune belle castella, ed in Monferrato anco teneva una bellissima terra. Ora in quei dì che Carlo VIII, re di Francia, passò in Italia e andò a pigliar il reame di Napoli, litigava esso Scarampo a Casale innanzi al conseglio del marchese per mantenere le giurisdizioni del suo luogo che quello di Monferrato cercava d’occupargli. E veggendo che non gli era fatta quella ragione che gli pareva d’avere, e che il suo avversario aveva più favore, se ne lamentò due e tre volte a la marchesa ed al signor Costantino. Ma, non essendo udito, fortemente se ne sdegnò. Egli era molto più ricco e potente che non era colui con il quale piativa, perciò che, come ho detto, e in Astesana ed altrove aveva molti bei luoghi. Onde si deliberò da se stesso farsi ragione, non considerando che per il feudo che aveva in Monferrato, era soggetto e vassallo del marchese e che d’ogni insulto che facesse sarebbe da la giustizia punito. Io credo che considerasse solamente a l’età del marchese che ancor era fanciullo, e non guardasse che ’l signor Costantino, che era governator nuovo, cercava di farsi ubidire e d’esser temuto per acquistarsi autorità. Congregata adunque moltitudine di gente dagli altri suoi luoghi, andò a l’improviso al castello del suo avversario, e quivi fatta ripresaglia, furono dai suoi molte cose rubate ed alcuni uomini morti. Come la cosa a Casale s’intese, fu al signor Scarampo a nome del marchese vietato che più innanzi non andasse, e che facesse restituire tutto ciò che stato era preso e che personalmente innanzi al conseglio marchionale comparisse. Egli, sprezzato il comandamento del suo signore, non solamente non restituì ciò che i suoi avevano rubato, ma di nuovo con armata mano ritornato al luogo del suo contrario, fece peggio che prima, e non si curò di comparire. Il che sentendo il signor Costantino, e parendogli che il tutto fosse a vergogna del signor marchese e danno de la giurisdizione marchionale, e che di lui si teneva poco conto, di nuovo fece far un altro comandamento, che sotto pena de la privazione del feudo e di perderne la testa, egli fra termine di cinque giorni devesse personalmente presentarsi in Casale. Il signor Scarampo lasciatosi a la còlera e a lo sdegno governare, sprezzato questo altro commandamento, cominciò a far assai peggio che fatto non aveva, e sperando potersi ritrar a le castella che di qua aveva, andò e la villa del suo contrario abbrusciò e il tutto mise a sacco e a rovina. Il signor Costantino, che quasi questo disordine preveduto aveva, s’era di gente provisto, e subito se ne venne e pose l’assedio intorno al castello del signor Scarampo, prima che egli partire, come deliberato aveva, se ne potesse. La signora Camilla sua moglie, sentendo questa mala nuova, fece ogni sforzo per metter vettovaglia nel castello ove era il marito. Ma per la solenne ed assidua guardia che i nemici facevano, non puotè mai fare che i suoi penetrassero al marito. Onde, sapendo che egli non aveva bisogno se non di pane, si ritrovò molto di mala voglia, e dubitando di ciò che avvenne espedì per le poste un suo a Lodovico duca d’Orliens in Francia, supplicandolo che con più fretta che fosse possibile provedesse a la salute del signor Scarampo. Il duca, che aveva molto caro esso signor Scarampo, subito mandò con sue lettere un cameriero a la marchesa di Monferrato, e le domandò di grazia che non lasciasse proceder più innanzi il signor Costantino contra il signor Scarampo, e che farebbe che egli saria ubidiente e sodisfaria a tutti i danni del suo avversario. La marchesa, avuto il messo del duca d’Orliens, lo mandò con sue lettere al signor Costantino; il quale in quel tempo era a pattuire col signor Scarampo, che non avendo più da vivere nel castello ed avendo mangiato i cavalli e quanto ci era, si rendeva a discrezione. Presentò il cameriero le lettere. Ma il signor Costantino, non so da qual spirito mosso, come ebbe lette le lettere, fece nel castello istesso tagliar la testa al signor Scarampo. Il che fu poi cagione de la sua rovina, perciò che non passarono tre anni che Lodovico duca d’Orliens fu fatto re di Francia, e prese il ducato di Milano, ed il signor Costantino fu astretto fuggir di Monferrato, perciò che il re aveva giurato di farlo morire se gli capitava a le mani. Ma torniamo a la signora Camilla, la quale, intendendo questa acerbissima nuova del marito, che ella amava a par de la vita sua, subito udito il messo s’inginocchiò, e pregando Dio che le perdonasse i suoi peccati, lo supplicò che le desse la morte. Mirabilissima cosa certo fu a veder quella bellissima donna, pregando Iddio restar a la presenza dei suoi morta, chè come ebbe detto: «Signor Dio, poi che il mio consorte è morto, non mi lasciar più in vita», se le serrò di modo il core, che, senza far più motto alcuno, cascò in terra. I suoi uomini e donne, credendo che fosse stramortita, se le misero a torno per rivocarle con varii argomenti gli spiriti vitali; ma poi ch’apparve morta a manifesti segni, fu con general pianto e dolor di tutti seppellita.
Strani e spaventosi talora son pur troppo i fortunevol casi che tutto ’l dì veggiamo avvenire, e non sapendo trovar la cagione che accader gli faccia, restiamo pieni di meraviglia. Ma se noi crediamo, come siamo tenuti a credere, che d’arbore non caschi foglia senza il volere e permission di colui che di nulla il tutto creò, pensaremo che i giudicii di Dio sono abissi profondissimi e ci sforzaremo quanto l’umana fragilità ci permette a schifar i perigli, pregando la pietà superna che da lor ci guardi. La fortuna lasciaremo riverire agli sciocchi, e lodaremo il satirico poeta che disse: «O fortuna, noi uomini ti facciamo dea ed in cielo ti collochiamo». Ora io vi mando un meraviglioso accidente che di nuovo in Napoli è occorso, pieno di stupore e di compassione, secondo che in casa del signor abbate di Gonzaga narrò, non è molto, il piacevole e gentil giovine messer Giovantomaso Peggio. Quando voi l’averete letto, vi piacerà leggerlo a la nostra comune padrona, madama Isabella da Este marchesa di Mantova, e tenermi ne la sua buona grazia. Sarete anche contento communicarlo con le gentilissime damigelle di quella, che pur solevano così volentieri le cose mie leggere, non vi scordando il nostro gentilissimo e dotto messer Gian Giacomo Calandra e il mio piacevole tanto da me amato il signor Girolamo Negro. State sano.
Fu, non è molto, in Napoli un Antonio Perillo, giovine d’assai onorata famiglia, il quale essendo per la morte del padre restato ricco, si diede stranamente al giuoco e in poco tempo acquistò nome di barattieri. E ben che il giuoco fosse il suo studio principale, nondimeno di Carmosina, figliuola di Pietro Minio, mercadante ricchissimo, s’innamorò, e tanto fece che la bella fanciulla