Notizie storiche delle maioliche di Castelli e dei pittori che le illustrarono/Capitolo VIII/Cappelletti Candeloro

Capitolo VIII - Cappelletti Candeloro

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CAPPELLETTI CANDELORO.

Da Berardino Cappelletti, e da Superna Grue nacque Candeloro a’ 2 di febbraio del 1689. Avendo sortito da natura sottile ingegno, i genitori divisarono di avviarlo all’arte del pennello, affidandolo alla cura dello zio [p. 64 modifica]Carlantonio Grue; il quale molto s’affaticava a tornare in fiore la pittura sulla maiolica. Ma Candeloro ch’era dotato di un temperamento assai focoso, e molto vago di avventure, entrato appena nella sua gioventù, lasciò i pennelli e si pose a seguitare il mestiere delle armi: nel quale ben presto si segnalò, e fu onorato di gradi. Ciononostante nel 1718 (non si sa il perchè) risolse di abbandonare la via dell’onore, nella quale con tanto desiderio si era messo: e poichè l’Imperatore Carlo VI erasi mostrato contento de’ suoi servigi, gli concesse molte prerogative, ed esenzioni militari.

Poste giù le armi, tutto l’animo diede alla pittura sulla maiolica: ed acciochè ritrar potesse coi colori il bello che avea avuto l’opportunità di contemplare nei suoi viaggi, si volse a dipingere paesi e scene campestri. Mentre tranquillamente passava suoi giorni nel luogo nativo tra i piaceri delle buone arti, s’invaghì di Camilla Nardangeli; alla quale poi si congiunse in matrimonio nel 1724.

Ma il Cappelletti non si stava sol contento alla lode, che gli veniva da’ suoi dipinti; forse perchè sentivasi l’ingegno acconcio ad ogni maniera di studi, o piuttosto per quella sua indole troppo mutabile: perciò lo trovo nel 1725 Governatore di S. Valentino nell’Abruzzo citeriore, dove volle procacciarsi nome col rendere giustizia. Però nel far esperimento delle varie condizioni di vivere in società, egli ben presto s’accorse, che non potea condurre vita più felice e tranquilla, che coi suoi pennelli. Onde volentieri li riprese, e non li [p. 65 modifica]lasciò che alla sua morte avvenuta nel 25 gennaio del 1772.

Questo valente pittore ebbe per lo più vaghezza di dipingere paesaggi di composizione; ne’ quali vedesi bene accordata ed unita la varietà delle parti: e, se ne togli qualche leggiero difetto ne’ dintorni delle figure, ammirasi in tutto il resto un tocco franco e risoluto. Negli scuri soleva a luogo a luogo dare il nero con botte così cariche, che il fuoco non giungeva a fonderlo: il che con avvedutezza egli operava, non solo perchè meglio fuggissero le lontananze, ma per ismorzare la troppa lucentezza dello smalto, che offende coloro che gli occhi hanno molto dilicati. Non usava, per quanto io sappia, apporre il nome ai suoi dipinti: varii quadretti io posseggo, che ho conosciuto appartenere a quest’artefice per alcune memorie di famiglia. In uno (alto un palmo, e largo uno e mezzo) scorgesi a prima vista un cacciatore, che per ristorare le membra già stanche dal lungo cammino, si è posto a sedere nell’ombra di un’annosa quercia: la quale, alle foglie in gran parte cadute, mostra che l’autunno è verso la sua fine. Alla destra di lui trae innanzi una giovane contadina, che porta in sulla testa un paniere: essa è rivolta con molta grazia verso il cacciatore per salutarlo, il quale nel risponderle lietamente, le mostra una lepre testè uccisa col suo fucil che tiene allato. Il cane nulla curante di ciò che avviene intorno a se, si sta dinanzi al padrone con gli occhi intenti alla preda: la quale è disegnata così al naturale, ed il pelo tanto vivamente colorato, [p. 66 modifica]che potrebbe ben porsi di riscontro alla celebre lepre del Dorv. Poco lungi ti si presenta allo sguardo un antico tempio caduto per vetustà, le cui crollanti mura sono indorate dagli ultimi raggi del sole, ch’è prossimo al suo tramonto; più là veggonsi campagne distese e paesi sopra amene colline; di lontano finalmente il mare con legni vaganti, e giogaie di monti: tutto ben digradato a ragione di prospettiva. — Questo artista fu anche valente in lavorare in stecca, come si è detto al Capitolo V.