Notizia bibliografica intorno alle Ultime lettere di Iacopo Ortis/III. Traduzioni
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III. Traduzioni
Il concorso de’ lettori non giustifica le opere nuove davanti a periti giudici, i quali possono spesso pronosticare senza ingannarsi che le piú famose saranno un dí biasimate da chi le lodava. Ma quanto minore è il vero pregio de’ libri avidamente letti, tanto piú importa investigarne i motivi: perché possono guidare a conoscere il cuore umano e le nature de’ tempi; specialmente ove alcuni libri siano letti per varie ragioni da tutti i ceti d’una nazione popolatissima, se uomini d’altri paesi si obbligano a pesarne ogni vocabolo e li traducono, se finalmente que’ libri producono effetti contrari ne’ loro lettori e inducono a giudizi diversi. Trattandosi qui d’un libro sì fatto, è prezzo dell’opera il ricercare analiticamente sì fatte cause: però è nostro scopo di raccôrre de’ soli fatti per chi poi, aggiungendovi molti altri consimili, volesse desumerne delle veritá generali. Ora, per dire quello che noi sappiamo delle traduzioni delle Ultime lettere, pare che tutte smentiscano la fama dell’originale. Una in tedesco fu pubblicata a Iena dal professore Luden, e non ebbe favorevoli i giornalisti, che lo accusarono di avere lavorato sopra un testo poco meritevole di versione. Il professore Luden non vide la prima edizione, e nella prefazione si duole di non avere potuto ottenere la milanese in ottavo. Tradusse letteralmente, e le frasi tutte secondo l’ordine loro; metodo che, se alle volte arricchisce la lingua in cui si traduce, rende spesso strani e raffredda i pensieri del testo. Pari è il difetto della versione inglese: sì che molti, nel leggerla, con ragione deplorano il tempo perduto e dal traduttore e da’ suoi lettori. Dove si narrano de’ fatti, un romanzo alletta anche nelle altre lingue; ma, se invece si esprimono affetti, allora l’incanto sta nello stile ed è raro che possa serbarsi nella traduzione, e rarissimo è che taluno, anche potendo, voglia spendervi le cure ed il tempo indispensabile a questa fatica, la men lodata forse, ma certo la piú ardua in letteratura. E le Ultime lettere hanno uno stile tutto loro proprio; e tale da essere censurato da chiunque volesse guardarlo a parte a parte, ma da sedurre i lettori. Le cose che contengono sono per lo piú comuni; il modo è sempre nuovo. Lo scrittore accenna, piú che non esprime a parole; trapassa, senza frapporre mai mezze tinte, da un oggetto all’altro; par che sprezzi sempre la rotonditá dei periodi, c talor l’armonia; non cerca vocaboli o frasi eleganti, e pare che il concetto gli suggerisca le voci piú proprie; né si cura che siano fuor d’uso, anzi la dicitura ha non so che ruggine proveniente dalla lettura de’ piú antichi scrittori italiani; ma, ad onta di certo zelo di puritá di lingua, che in generale trovasi in quelle Lettere, vi s’incontra alle volte delle licenze tutte nuove e non imitabili: insomma è stile d’uomo che scrive a sé unicamente e per sé; che non pensa a chi leggerá; che appena tocca fatti e concetti a cui necessiterebbe spiegazione piú chiara; altri li ripete troppo; d’altri tace e, benché non gli abbia mai accennati, presuppone che siano saputi; e il vigore e la schiettezza delle espressioni escono da impeto d’anima e da uso pratico della lingua, piuttosto che da metodo premeditato di scrivere. Però chi sul serio dicesse che lo stile di questo libretto piace appunto perché non ha stile (pigliando il vocabolo nel significato delle scuole), darebbe forse nel segno. Non si legge mai, si ode sempre; né s’ode l’oratore o il narratore, bensi l’uomo giovine che parla impetuosamente e lascia discernere i vari colori della sua voce e i mutamenti della sua fisonomia. La versione francese, tenendo metodo al tutta contrario dall’inglese e dalla tedesca, è caduta nel contrario e peggiore difetto. Le prime due, non foss’altro, rendendo frase per frase (segnatamente la tedesca, lavorata da scrittore perito nelle due lingue), lasciano intatta la sostanza del testo. Bensì la francese, per abbreviarlo talvolta, allargarlo spesso, e abbellirlo sempre, lo trafigura in guisa che taluni, leggendola, hanno sospettato che fosse traduzione della Vera storia di due amanti infelici pubblicata da Angiolo Sassoli, anziché delle Lettere di Jacopo Ortis. Senza che, molti passi sono traintesi, molti travolti a bella posta; e il senso vien a rovescio dell’originale: il che s’incontra principalmente ne’ ragionamenti, concatenati con rapida e stretta brevitá, ne’ quali chi tradusse non ha sottinteso i nodi tralasciati dall’autore. Finalmente il traduttore non si contentò né del frontespizio, né d’un volumetto solo: lo divise in due e lo chiamò Le proscrit. Quanto ad altre due versioni francesi, che, stando agli annunzi del Journal de l’empire, 7 febbraio 1811, e della Gazette de France, 9 febbraio di quell’anno, doveano essere vendibili l’una dal libraio Dentu, l’altra dal Lefèvre, non sappiamo altro se non che il governo le sequestrò, e allora il libro fu proibito anche in Italia. A molti pare ad ogni modo difficilissimo che, tradotto in altre lingue, riesca leggibile; ed è presso che impossibile il tradurlo in francese, idioma che ha per indole la chiarezza e l’esattezza, e sopra tutto certa eleganza di «convenzione» e di «bon ton», due cose ignote, agli scrittori originali delle altre nazioni. Insomma, se i pensieri e gli affetti sentiti ed espressi da molti sono ridetti o comunemente o con troppo studio, non possono provocare la curiositá di chi legge, perché ei li sa, né procacciarsi la sua fede, perché gli paiono ricercati e dettati con arte. Ma, se le cose medesime sono riscaldate e scritte da un foco tutto proprio a chi le dice; s’ei le porge quasi gli fossero insegnate dalla sola natura e rischiarate col suo proprio ingegno; ispirate, per così dire, dal genio delle sue passioni, e confermate dall’esperienza degli accidenti della sua vita; se finalmente le esprime per necessitá di spassionarsi, anziché per progetto di farsi ascoltare: allora tutto quello che dice porta seco una novitá che infallibilmente alletta chi legge, e, quantunque vi siano de’ sofismi e de’ paradossi, non se ne incolpa l’autore, perch’ei mostra di dire solamente cose che nella sua coscienza egli crede innegabili e vere. Or chi non vede come sia malagevole il serbare sì fatta originalitá nelle traduzioni? la quale oltre all’essere individuale, è parimente caratteristica della nazione; e, tolta l’originalitá, il rimanente, come s’è detto, riducesi al niente. E, per riferire quanto ci è noto intorno alle versioni dell’Ortis, aggiungeremo che il signore Atanasio Politi di Leucade lo tradusse in greco, e ne pubblicò il manifesto in Firenze; ma della stampa e dell’esito del suo lavoro non abbiamo notizie. Ecco quanto abbiam letto e udito su le traduzioni del libro.