Non è viltà ciò che dipinge in carte
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XI
per lo medesimo
Non è viltà ciò che dipinge in carte
Fama alata cerviera;
Ove dunque pugnando il grande Alcide
Fu per lo Mondo errante peregrino,
Gloria veloce ardente
L’orme segnò delle robuste piante.
Ei là, dove Nettun Libia diparte
Dalla gran terra Ibera,
Anteo l’immenso, e Gerione ancide;
Alza le mete del mortal cammino;
Indi con man possente
Spegne sul Tebro il rio ladron fumante.
Or poiché vincitor per ogni parte
Fu d’ogni orribil fera,
Sopra il cerchio di latte Apollo il vide.
Sparso di stelle riposar divino
Ivi d’Ebe lucente
Aurea bellezza il fa felice amante.
Germe di Tebe, a cui tanto comparte
D’onor l’età primiera,
Da’ chiari pregi tuoi nulla divide
I pregi del mio Duce ugual destino;
Sì nel’armata gente,
E sì ne’ premij a te si fa sembiante
Qual vince orrido Noto ancore e sarte,
E ’l buon nocchier dispera,
Qual su i regni dell’onde orrendo stride,
E ’l Cielo asperge del furor marino;
Tal sulle schiere spente
Di nobil sangue ei fulminò stillante.
Quinci lieto sen vien con sì bell’arte
Alla sua Dora altera,
Che dalla bella riva, ove ei s’asside
Manda suo nome all’alto Ciel vicino
Quinci a lui si consente
Donna di pregio e di beltà stellante.
Care Muse dell’Arno, eccovi in parte
La nostra gloria intera,
Io pur com'uom, cui suo valor disfide,
Con strette labbra da lontan l'inchino;
Fate voi, che altamente
Parnaso e Pindo ne risuoni e cante: