Niccolò Franco a messer Francesco Alunno, da Ferrara

Niccolò Franco

1541 Indice:Il Vendemmiatore e La Priapea.djvu Prosa letteratura Niccolò Franco a messer Francesco Alunno, da Ferrara Intestazione 16 giugno 2012 100% Da definire

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NICCOLÒ FRANCO


a messer


FRANCESCO ALUNNO, DA FERRARA.


Perche si vegga, come ciò che ho fatto è ben fatto, il vostro testimonio mi gioverà e basterammi, sendo di voi chiara non meno la bontà, che notissima la virtù. Voi mi vedeste assassinato. Non dico dagli amici beffato e abbandonato, perchè le cortesie che voi solo mi usaste ve lo rammenteranno in fin ch’io sia vivo. Voi foste quello che veniste a me molte volte a farmi intendere a nome del ribaldaccio, ch’egli non pur non era mal contento del caso avvenuto, ma come uomo non colpevole sarebbe venuto a visitarmi, e sapete ch’io vi risposi che delle sue visite e delle sue offerte non mi curava. È ben vero ch’io non sapendo mettermi al niego di ciò che mi dimandate, vi permessi di non prevalervene con la penna, solo che s’avesse tolto di casa quel boja suo beccarello, ed in questo si restò l’intercessione che di sua parte feste appo me. Sapete ch’egli facendo più conto d’un suo marito che dell’onore d’un mio pari, non pur non volse dargli licenza, ma gli diede ogni ajuto ne’ tribunali, e fello passeggiare dinanzi alla casa mia mentre io era in letto, e comportò che per i suoi medesimi, presente il Ricchi [p. 183 modifica], mi mandasse le polizze. Sapete come dipoi vedutomi oltraggiato da’ suoi, compose non so che sonetti ridendosi del mio uscire di casa. E sapete ultimamente, come non parendomi essere il tempo allora, diedi alquanto sosta alle mie vendette, aspettando solamente che le promesse fatte al sudore della mia virtù fussino state riconosciute da i falsi amici. In somma fu vinta la mia speranza dagli spietati disegni loro, e fummi forza che al mio viaggio per Francia si desse esecuzione con più tostana fretta ch’io non pensava.

Giunto quì, non mi parve lasciar l’Italia senza farle conoscere non dico tutto quello, ma solo una particella di quello ch’io so fare contro l’ignoranza de’ tristi. Ecco dunque messer Francesco ch’io son pur vivo, dove altri avea disegnato ch’io fussi morto. Ecco ch’io ho pur fiato da respirare, onde campato di tante avversità con lo scudo de’ miei inchiostri, e con l’armi d’un giusto sdegno, insegnerò a i tristi, come via meglio saría stato che avessino tenuta chiusa l’invidia dentro i loro animi, ed ivi suffocatala con ogni doglia, che averla scoperta nel provocarmi. Ecco che la sua nequizia è riuscita solamente in ignominia di lui tristo. E si come piacque a Cristo che la gagliofferie della vita sua, due volte in Roma non furono terminate dal giusto ferro per ridurlo al fuoco o alla forca, come castigo più dicevole alle sue scelleraggini, così pur dianzi gli piacque ch’io rimanessi in [p. 184 modifica]vita, perche vivendo mi si dia tempo da flagellare i suoi vizj, sapendo il sommo fattore che l’armi mie sole aguzzatemi dalla natura a terror del vizio, sono bastevoli a conculcare i suoi. E per tanto parmi d’aver ottenuto a grazia dalla sorte che la signoria vostra restò fuori di quello ch’io promesso le avea, e che mi furono date tante duplicate cagioni d’esserne uscito, ancora che la ragione non avrebbe voluto, ch’io, a qualunque uomo che sia, non che a voi, al quale son debitore d’ogni riverente atto per rispetto delle sue cortesie, avessi fato dono di quell’occasione che giustamente cercava, e che (dirò così) Dio m’avea posta innanzi da tor vendetta d’un sì tristo uomo con l’onor del mio nome, e col contento di mille buoni.

E m’era assai a doverlo fare, se ben egli non fusse stato nè argomento dell’assassino, nè stimolo dell’assassinato, ma solamente perche colui era de’ suoi, perocchè il gaglioffo la volse coll’arcivescovo di Cipro, mentre avea gara col Fortunio e col vescovo di Verona per rispetto d’Achille. Nè io con altri che con esso lui dovea prenderla, che l’osservare il grado della riputazione tanto più sta bene a me, quanto egli offende i buoni, ed io i tristi suoi pari. Benchè egli mostrando di volerla con i protettori de’ suoi avversari non tanto il fa per scoprirsi nella grandezza, quanto per coprirsi nell’ignoranza, sapendo che ne i vescovi ne gli arcivescovi, ne i prencipi gli sapriano rispondere con le rime, con [p. 185 modifica]le pugnalate si bene. E si sa che l’ignorantaccio non ebbe mai ardire di rispondere, non che di provocare coloro che con ingegno e non con malignità sanno scrivere, ed il maggior ardimento che mai mostrasse fu l’aver fatto il motteggevole con i Prè Biagi. Nè mi negherà che al Berni, al Mauro, e al Sanga, che con mille morsi il lacerorono mentre fur vivi, egli non rispose giammai, e volendone dir male, ne disse poi che fur morti. Voletela meglio? sapete come fatti che m’ebbe i sonetti contro, dubitando ch’io non gli rispondessi, mi mandò minacciando per voi medemo. Perche se pur è colui che sí tiene, dovrebbe pigliarla con coloro che glie ne dan cagione, e volendo far conoscere che sa dir d’ognuno, darci a vedere che sappia rispondere pur a tutti. Anzi ha preso in costume di minacciare gli stampatori, udendo che stampino qualcosa contro di lui, e pose i mezzani appresso il Giolito mentre si stampavano i miei dialoghi, per la tema che di lui vi si fusse scritto. Ma non è fuor di giudizio l’ignorante, conoscendo che questa è la via da fare che i da poco gran maestri il tengano per un Dio, e vedendolo in maestà l’adorino, e conoscendo ch’egli morda tutti, e nissun cane gli fiuti addosso, il riveriscano con i buoni, e sendo così, la ragion vuole ch’io non solamente la voglia con lui, come guida de’ tristi da’ quali sono stato offeso, ma mi rivolga a quei vituperosi prencipi, che sono stati e saranno il sostentacolo delle sue infamie, che [p. 186 modifica]se non aggradissino la stomacaggine de’ suoi scritti, si morrebbe di fame, la dove sì per l’ignoranza, sì per i vizj, non gli sarebbe dato un ridotto negli spedali. Nè mi può egli opporre con onor suo che ingrato gli sia, perche se io accetto a lui, che m’abbia talvolta dato del pane suo, egli non può negare a me, che con le fatiche mie usate nelle sue cose, non gli abbia renduto a sette doppi la cortesia; sapendosi che in quel tempo che io ed altri virtuosi usavamo nella sua casa, ascese al luogo sì riguardevole, donde si vide sotto i piedi la sciocchezza de’ prencipi, e perduta l’amistà de’ dotti, ne venne giuso.

E chi non sa che se i miei pari non fussero, egli da se non varrebbe a tradursi nel volgare le leggende de’ santi padri che tutto giorno va fioreggiando? Ma che dirà l’ingrato uomo? Potrammi mai egli ricompensare con mille vite il buono ufficio ch’io per lui feci nella querela che gli fu data per la bestemmia? Non è egli noto in Venezia? Dove s’avrebbe potuto scoprire il mio buon animo con meglio prova, sè mentre io era fuori delle sue pratiche, gli usai la buon opra ch’io non dovea? Ma così va. Niun altro testimonio non reco del suo tristo animo, se non quest’uno, e perciò sia indizio del mio buon giudizio s’io sempre con voi contesi, che il livore del suo petto saria stato il fonte de’ miei oltraggi, e che le offerte che a suo nome recavate, erano melate finzioni per ascondere l’animo micidiale, [p. 187 modifica]per iscolparsi appo la credenza degli uomini, e per tormi di man la penna, vedendomi fuori di quella morte che i suoi ordita m’avevano. E che fusse il vero, vedeste che non avendo potuto oprare accordo con esso meco nè con denari nè con offerte, pensò col fare i sonetti colorarsi la sua vergogna, ma egli l’ha più palesata il poveraccio, vedendosi che per i cinque io gli so rendere i cinquecento, a i quali non avrà sì tosto risposto, che m’udirà con altre voci che non son queste, e tali, che per l’innanzi i cani impareranno di non bajarmi, i maligni cesseranno di stimolarmi, gl’ignoranti resteran puniti da coloro che sanno, i buoni conosciutomi nimico de’ tristi m’osserveranno, i prencipi ravvedutisi dell’error loro premieranno i dotti, e non da altro che dal mio inchiostro rimarrà vendicato il mio sangue.

Alla signoria vostra mi raccomando.

Di Torino del mese di Giugno del 1541.


FINE.