Monarchia/Libro III/Capitolo X

Libro III - Capitolo X

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Dante Alighieri - Monarchia (1312)
Traduzione dal latino di Marsilio Ficino (1468)
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Che la concessione di Gostantino inperadore a Santo Salvestro papa di Roma et d’altre degnità d’inpero, secondo el detto d’alcuni, non è di ragione; et però el sucessore di Salvestro non le può dare ad altri.

Dicono ancora alcuni che Gostantino, essendo mondato dalla lebra per la intercessione di Salvestro allora pontefice, donò la sedia dello inperio, c[i]oè Roma, alla chiesa, con molte altre degnità d’inperio. Onde arguiscono che quelle degnità dipoi nessuno può ricevere se no ·lle riceve dalla chiesa, della quale elle sono, secondo che loro dicono; et di questo bene seguiterebbe, come vogliono, l’una autorità dall’altra dipendere. Posti et soluti gli argumenti, e quali parevano fondati ne’ divini sermoni, resta porre et solvere quegli che ·ssi fondano nelle cose fatte da’ Romani, et nella humana ragione. De’ quali e primo è quello che ·ccosì si propone: ’Quelle chose che ·ssono della chiesa nessuno può di ragione avere se non dalla chiesa’ — e questo si concede — ; ’el romano reggimento è della chiesa: adunque non lo può nessuno di ragione avere se non dalla chiesa’. E pruovano la minore per quelle cose che di Ghonstantino di sopra sono dette. Questa minore io niegho loro; et quando e’ la pruovano, dico che nulla pruovano, perché Gostantino non poteva alienare lo ’nperio, et la chiesa no ’l poteva ricevere. E quand’eglino si contrapongono pertinacemente, quel che dico così si può mostrare: a nessuno è lecito fare quelle cose per l’uficio a ·ssé diputato, le quali sono contro a esso huficio; inperò che ·ccosì una cosa medesima, in quanto è essa medesima, a ·ssé medesima sarebbe contraria; e questo è inpossibile. Ma contro allo huficio diputato allo inperadore è dividere lo ’nperio, conciosiaché ·llo huficio suo è ad un volere et uno nonvolere tenere la humana generatione subg[i]ughata, come nel primo libro dimostramo; et però non è lecito allo inperadore dividere lo ’nperio. Se adunque per Gostantino fussono alcune degnità alienate dallo inperio, come loro dicono, et fussino nella podestà della chiesa pervenute, sarebbesi divisa la vesta inconsutile, c[i]oè non cucita, la quale non ebbono ardire di dividere etian coloro, i quali vulnerorono Cristo, vero Iddio, con la lancia. Holtre a questo, come la chiesa àe el fondamento suo, così ancora lo ’nperio àe el suo. Però che ’l fondamento della chiesa è Cristo; onde lo Appostolo A’ Corinti così parla: «Nessuno può porre altro fondamento, oltre a quello che è posto, e questo è Cristo Yesù». Lui è la pietra sopra la quale è la chiesa fondata. Ma ’l fondamento dello inperio è la humana ragione. Dico hora che ·ccome alla chiesa non è lecito fare contro al suo fondamento, ma senpre debba sopra esso attenersi (secondo la Canticha: «Chi è costei che sale del diserto, abondante di delitie, che ·ss’accosta sopra al suo diletto?»), così a lo ’nperio non è lecito fare alcuna chosa contro alla humana ragione. Ma e’ sarebbe contro alla humana ragione se ·llo ’nperio sé medesimo dissipassi: adunque allo ’nperio non è lecito sé medesimo dissipare. Et perché dividere lo inperio sarebbe distrugere esso inperio, conciosiaché ·llo inperio consiste nella hunità della huniversale monarchia, è manifesto che nonn–è lecito allo inperadore dividere lo ’nperio. E ·cche sia contro alla rag[i]one humana dissipare lo ’nperio di sopra è manifesto. Ancora ogni g[i]urisditione è più anticha che ’l g[i]udicie suo, inperò che ’l g[i]udicie è ordinato a essa g[i]urisditione et non per contrario; ma lo ’nperio è g[i]urisditione che nella anplitudine sua ogni tenporale g[i]urisditione conprende: adunque ella è prima che ·llo inperadore suo g[i]udicie, per la qual chosa lo inperadore a ·ffine d’essa è hordinato, et none essa a ·ffine di lui. Di qui è manifesto che ·llo inperadore non lo può permutare, in quanto egli è inperadore, conciosiaché ·llui riceva da ·llei quello essere che lui è. Ora dico così: o quello era inperadore quando e’ dicono che conferì alla chiesa, o no; e se no, è chiaro che non potea conferire lo ’nperio; et se era, conciosiaché ·ttale collatione era diminutione di g[i]urisditione inperiale, in quanto era inperadore fare no ’l poteva. Ancora, se ·llo inperadore potessi seperare alcuna partichula dalla g[i]urisditione inperiale, per la ragione medesima potrebbe l’altro similmente fare. Et conciosiaché ·lla g[i]urisditione tenporale sia finita, et ogni cosa finita per finite divisioni si consumi, per la qual cosa seguiterebbe che ·lla g[i]urisditione prima anicchillare si potrebbe; e questo non è di ragione. Anchora, perché chi conferiscie ha natura d’agiente, et colui a ·cchui è conferito di patiente, come dicie Aristotile nella Eticha, a volere che ·ssia lecito el conferire, non si richiede solamente la dispositione di colui che conferisce, ma etian di colui a ·cchui è conferito: perché pare che l’operationi degli agenti sieno nel patiente disposto. Ma la chiesa in nessuno modo era disposta a ricevere cose tenporali, pel precepto ch’espressamente lo vieta, come abiamo da Matteo: «Non vogliate possedere oro né ariento nelle vostre cinture, né pechunia, et non portate la tascha per la via». Et benché per Lucha abiamo alquanta larghezza circha questo precepto quanto ad alcune cose, nientedimeno quanto [a] possessione dell’oro et ariento, non ho potuto trovare licenza data alla chiesa dopo la proibitione predetta. Per la qual cosa, se ·lla chiesa non poteva ricevere, dato che Gostantino avesse potuto fare questo, nientedimeno tale atione non era possibile riceversi, non essendo el patiente disposto. Adunque è manifesto che ·lla chiesa non lo poteva ricevere per modo di posessione, né lui per modo d’alienatione conferire. Nientedimeno poteva lo ’nperadore, inn–aiuto della chiesa, el patrimonio suo et altre cose spendere, stando senpre fermo el superiore dominio, l’unione del quale divisione non patisce. E poteva el vichario di Dio ricevere, non come possessore, ma ·cchome dispensatore de’ frutti a’ poveri di Cristo per la chiesa; la qual cosa sappiamo essere dagli appostoli fatta.

Ancora dicono che Adriano papa chiamò Charlo Magnio in socchorso di sé et della chiesa, per la ’ng[i]uria fatta da’ Longonbardi nel tenpo di Disiderio re loro; et che Charlo da ·llui ricevette la degnità dello inperio, non ostante che Micchael era in Gostantinopoli inperadore. Il perché dicono che tutti que’ che dopo lui furono inperadori romani sono avochati della chiesa, et debbono da ·llei essere chiamati: onde seghuirebbe ancora quella dipendentia la qual vogliono chonchiudere. Et a distrutione di questo dicho che parlano invano, perché l’usurpatione della ragione non fa rag[i]one. Inperò che ·sse la facessi, per [u ·] modo medesimo l’autorità della chiesa si direbbe dallo inperadore dipendere, dappoi che Ottone inperadore ristituì papa Leone et depuose Benedetto, ed i[n] Sansognia lo mandò inn–exilio.