Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XXVI

Capitolo XXVI

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CAPITOLO XXVI

Ritorno della Ricci a Venezia. Sua metamorfosi.

Mie osservazioni e miei riflessi morali.

Ritornata a Venezia la compagnia del Sacchi nell’autunno di quell’anno, non mancai, pregato, di comporre il solito prologo in versi, da recitarsi dalla prima attrice Ricci al pubblico all’apritura del teatro.

Quantunque io fossi ben alieno dal visitare la Ricci alla di lei casa, era anche alieno dall’usare con lei delle inurbanitá, e siccome ero solito a passare la maggior parte delle sere nei stanzini del palco scenario, credei di non dover fare la novitá di astenermi, per non dar adito a nuovi discorsi, a nuovi interpretazioni, a nuovi giudizi e a nuove mormorazioni pettegole, e massime perché non aveva cosa che mi dovesse sforzare ad allontanarmi dagli altri comici miei protetti.

Vedeva la Ricci ne’ stanzini medesimi e trattava con lei con la civiltá e urbanitá usata dall’uomo ben nato, ma come si tratta una valente attrice soltanto.

Scorgeva ch’ella aveva fitto nel cervello ancora il puntiglioso verme di volermi indurre a visitarla, e scorgeva ch’ella fremeva della mia indifferente civiltá. Intuonava quando ben le pareva che, voless’io o non volessi, ero il di lei compare. Io fingeva o di non intenderla, o tentava di rivolgere il discorso, o passava chetamente ad altro stanzino dov’ella non v’era.

Questo mio contegno di cautela appariva a lei una noncuranza offensiva la sua donnesca ambizione, irritava quell’amor proprio tanto raccomandatole da madama Rasetti di Torino.

Sperando d’offendermi e di mortificarmi passava ella ad un frascheggiare, mossa dall’inganno della sua baldanza, considerando un vanto ciò ch’era un avvilimento. Esagerava sopra ai [p. 19 modifica]beni ch’ella godeva dal punto del mio abbandono, senza esprimere quest’abbandono non confacente con la sua alterigia. Candele di cera erano i suoi lumi; ottimi vini, perfetto caffé, zuccheri fini, cioccolata eccellente, con altre delizie che le inondavano la casa, e tutto regalato, erano i beni, argomento delle sue imprudenti esagerazioni.

Fermo nella mia taciturnitá, in cui cercai sempre il mio divertimento facendo l’osservatore sull’umanitá, contemplando e ascoltando quella femmina, il mio viso non era che ridente, il mio cuore non faceva che dire ciò che doveva, commiscrando la mia povera scuola di cinqu’anni gettati.

Che piú? Forse per mostrare disprezzo vendicativo contro a quella mia povera scuola, ella giunse senza rossore a dar animo e di far degl’inviti lusinghieri al vecchio comico vizioso, donatore d’abiti di raso bianco, da cui nel passato era stata perseguitata e da cui io l’aveva difesa, e ad invitarlo da lei con le medesime seguenti parole: — Giá ora non ho nella mia casa seccagginosi morali predicatori di mondani riguardi.

Le mie osservazioni trovavano un bel campo da spassarsi sul carattere metamorfosato e sviluppato di quella giovine in un giro di pochi mesi dall’abilitá de’ suoi novelli amici.

Mi piaceva particolarmente la ostentazione del faceto suo orgoglio con cui cercava di far credere ch’ella s’era liberata di me, come se non fosse veritá ch’io m’era liberato di lei ad onta delle sue pretese, de’ suoi tentativi, delle sue circuizioni e insistenze. Senza queste ed altre consimili osservazioni diligenti sulla umanitá non si possono comporre delle commedie. Confesso però ch’io non rideva meno di lei che di me e de’ miei cinqu’anni di ranno e sapone gettati.

Fui sempre in guardia di non usare con lei alcun tratto che olezzasse di sgarbatezza e attentissimo nella mia reale indifferenza ad usare la piú diligente civiltá: ma la mia indifferenza compariva sempre piú agli occhi suoi disprezzo, per quanto studio usassi dal canto mio; ed è perciò ch’io viveva con del sospetto, conoscendola per esperienza una farfalla puntigliosa, zolfurea, audace, imprudente, vendicativa e arrischiata. [p. 20 modifica]

Continuava a fare il mio uffizio da osservatore, uffizio a me dilettevole, e spezialmente andava osservando tacitamente gli effetti cagionati dalle libere moderne filosofiche amicizie omogenee alla di lei prima educazione.

Abbandonato del tutto il contegno morigerato e rattenuto in cui s’era ella fatta da me conoscere ne’ cinqu’anni della mia amicizia, resa sfrenata, affettata, gazza loquace e pretendente d’aver educato il suo spirito nelle sue nuove ricreazioni di pochi mesi, trovava in lei una donna novella attissima ad appagare l’indole mia democratica.

Ella vantava d’aver apprese molte erudizioni importanti, tra le quali era giunta a sapere che la denominazione del giuoco di «rocambol» era nata da due vocaboli inglesi.

Narrava d’aver appreso a non portare piú brache, perché le brache, massime in certo tempo, chiudono e conservano sotto a’ panni delle femmine un tanfo di schifi odori. — Le donne — diceva ella — devono tener esposte le loro membra all’aria, che giuocando sventoli e purghi i fetori.

Coll’immaginazione fissa a Parigi dov’ella doveva andare, Venezia era divenuta per lei una cloaca. Gli abitatori di Venezia e dell’Italia tutta non erano per lei che goffi, dozzinali, ignoranti, insopportabili.

— Non vedo l’ora — esclamava ella, sanata da’ pregiudizi — di passare a Parigi, lá dove de’ finanzieri ricchi sfondati scagliano de’ borsoni di luigi d’oro alle attrici con maggior facilitá che in Italia non si dona una pera.

— Sia benedetto — diceva pavoneggiandosi — il fare all’amore senza riguardi d’una stupida educazione. Noi mortali non abbiamo altra felicitá che il fare all’amore sino alla morte. — Dicendo ciò, da vera spregiudicata, non faceva il menomo conto d’aver un marito e due figli.

Compariva ogni sera ne’ stanzini del teatro empiendo l’aere d’un acuto odore di muschio, cosa novella in lei; e se alcuno si lagnava dell’acutezza di quell’odore sentendosi offeso e addolorato il capo, ella con un sorriso sprezzante ed una scamoffia che credeva francese diceva: — Che pregiudizi! A Parigi sino [p. 21 modifica]gli alberi della Tuillierie odorano di muschio, perché le signore le quali per qualche istante siedono e s’appoggiano a quelle piante, comunicano loro l’odore di muschio ch’esse hanno addosso.

Narrava d’essere affaccendata ad apprendere la gallica favella da una femmina francese di lei maestra e che la informava dei bei costumi di Parigi.

Parigi era divenuto sulla sua lingua una specie d’intercalare a tutti i propositi, perpetuo. Invasata della francese leggiadria, della quale s’era formata un’idea a modo suo e a modo della leggerezza del suo cervello, era ridotta a recitare le sue parti con una caricatura notabilmente affettata d’azione, in quel tempo non sofferibile dagl’italiani.

Il linguaggio, il pensare, i sentimenti, il recitare di quella giovine erano tutte cose novelle in lei e dilettevoli all’animo mio risibile. Gli osservatori non ridono senza riflettere sopra a ciò che osservano.

— Ecco — diceva tra me — una giovine comica riscossa da’ pregiudizi da’ quali son io incatenato, e dalla mia scuola caduta di moda entrata nella scuola moderna di madama Rasetti e in quella de’ suoi novelli amici colti e spregiudicati, che l’hanno erudita sulla denominazione del giuoco di «rocambol», ammaestrata a caricarsi di zibetto e di muschio, ad affettare le maniere delle francesi attitudini, a disprezzare tutto il mondo fuor che Parigi, a contemplare con occhio d’attrazione le borse de’ finanzieri di quella metropoli, e che le hanno provvidamente fatto scagliare lunge da sé sino le brache perch’ella sia ventilata e purgata dall’aria sotto le carpette.

Quanto imbecille fui — rifletteva io — a proccurare d’indurre questa giovine ad una morigeratezza muffata, alla parsimonia, sul pensiero all’etá che fugge, a due figliuoletti, a quella virtú che omai è sola virtú nella mente delle femmine dette senz’anima e stupide e nella guasta opinione del volgo ignaro, a coltivarsi lo spirito con qualche buona lettura e collo scrivere qualche ora del giorno. Ella non aveva bisogno d’assoggettarsi a tali pensieri e a tali noiosi esercizi. Una libera ricreazione d’amici brillanti del [p. 22 modifica]secolo illuminato, tra il giuoco, i conviti, i piaceri e gli amori, fece di lei una fulgida stella adorna di tutte le belle qualitá nel giro di poche lune, senza il tedio de’ riguardi, delle etichette e dello studio. Ella apprende ora a favellare col linguaggio francese e averá un vantaggio di piú. La sua fortunata memoria la condurrá ben presto a possedere la gran facoltá di quel linguaggio. Potrá dire tutte le scipitezze, le stolidezze, tutti gli assurdi e i spropositi che la leggerezza ignorante stimola a dire; ma potrá tutto esprimere in linguaggio francese. Non saranno piú scipitezze, stolidezze, assurdi, spropositi. Se sono espressi in quell’idioma con franchezza e brio, cambiano natura e acquistano la qualitá delle acutezze, de’ sali, de’ tratti di spirito, di buon senso, e divengono frutti d’una colta educazione. Il solo suono di quel linguaggio basta ad abbellire, a dar vivacitá e sapore a tutte le sciocchezze e le stolidaggini italiane.

Per tal modo mi spassavano le mie democratiche osservazioni ch’io faceva sopra alla Ricci cambiata, ossia sviluppata nel suo vero naturale istinto.

Una sola delle mie osservazioni riflessive destava in me qualche umana commiserazione riguardo a quella povera donna, ch’era pur stata mia comare ed amica per un lungo tempo e ch’era ridotta un’ottima comica per il teatro italiano. Io le aveva pronosticato un buon incontro nel teatro italiano di Parigi, ma ella andava di giorno in giorno accrescendo i suoi contorcimenti, le sue affettazioni nel recitare, per imitare secondo la sua falsa immaginazione i francesi. — Tutte le nazioni — diceva io tra me a seconda della mia balordaggine — hanno le loro maniere particolari. I francesi attendono a Parigi un’attrice italiana. Troveranno una imbastardita, scomposta, affettata scimia della loro nazione. — Prevedeva la caduta della povera Ricci in quella metropoli e mi rincresceva. Fui indovino e mi dispiace.

Tronco le mie osservazioni riflessive inconcludenti, e passo a narrare colla pura veritá sulla penna come le crucciose vendicative imprudenze di quell’attrice fecero divenire il mio dramma innocente: Le droghe d’amore una satira particolare sugli omeri del signor Pietro Antonio Gratarol senza il menomo proposito; [p. 23 modifica]e come quel signore prestando fede e favorendo la arrischiata vendicativa imprudenza della sua piú nimica che amica, riscaldato il cervello contro di me e contro la innocente opera mia, con una concatenazione pertinace di passi falsi, di contrattempi e di bestialitá, aizzando i suoi nimici, cozzando con chi è malagevole il cozzare, risvegliando la venale malizia comica inurbanissima e destando un’illusione inestinguibile nel pubblico, fece divenire corpo solido un’ombra semplice e soggiacque ad una sciagura che quanto fu dolorosa all’animo suo altrettanto trafisse l’animo mio.