Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XXII
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CAPITOLO XXII
La mattina dietro al lautissimo banchetto dato dal signor Gratarol e mentre ero io ancora a letto, mi fu annunziata la visita del signor Gratarol, ch’io aveva conosciuto appena per momenti e di volo sul palco scenario. Mi raccolsi a ricevere questa visita per me nuova.
Egli entrò co’ suoi passi piú inglesi che veneziani, abbigliato leggiadramente, e con delle espressioni verso di me che l’umiltá mia non poté che considerare adulazioni mal spese.
Dopo avergli io chiesto perdono del modo con cui lo riceveva e dopo le solite ricerche e risposte sul mio stato di salute, egli passò a dirmi che, essendosi formata una compagnia nobile di dilettanti di comica, ed eretto un teatro nella contrada di San Gregorio per ivi recitare delle commedie e delle tragedie, della qual compagnia egli stesso era membro, aveva egli proposto alla sua comitiva ch’era necessario un capo stabilito, sovrastante, direttore e plenipotenziario, alle cui leggi ognuno dovesse ciecamente obbedire in tutto e per tutto, e che l’assemblea intera era discesa ad accordare la di lui proposizione; ch’egli s’era presa la libertá di nominar me, e che tutta la societá aveva acclamato il mio nome con esuberanza e persuasione universale.
Lasciando da un canto lo stomachevole spirito di adulazione ch’io scòrsi, confesso che il sentire occupato e impegnato con tanta serietá a ragionare di cosa cosí frivola un secretario dell’augusto veneto senato, eletto residente della serenissima repubblica alla corte d’un monarca delle Due Sicilie, risvegliò in me lo stupore e il risibile per tal modo che dovei tardare nel rispondere, per trattenere le risa.
Egli però soccorse la mia tardanza seguendo il suo discorso.
— Una tale istituzione in Venezia — diss’egli — è utilissima per sviluppare e addestrare gli spiriti e per l’educazione de’ giovanetti — proseguí quel signore di etá matura, secretario del senato, residente alla corte di Napoli e comico della compagnia nobile di dilettanti. — Io trovo la detta istituzione bellissima, utilissima e degna. Che sembra a lei, signor conte?
— Lodo — risposi quando potei — la istituzione giá inveterata ne’ collegi per l’educazione de’ ragazzi, né potrei che approvare la medesima istituzione anche fuori da’ seminari, per tenere occupata la gioventú ch’esce dal corso de’ suoi studi. Ciò può essere un onesto e virtuoso divertimento per le famiglie e opportuna scuola per sciogliere gli spiriti, per esercitare la memoria, per arricchire di sentimenti, per far superare a’ giovanetti il legame d’una soggezione talora dannosa, e per far spedito, pronto e grazioso il favellar loro. L’emulazione in un tale esercizio, nonché in altri consimili, nella quale entrerebbero i giovani per superarsi l’un l’altro nel vincere applausi da’ spettatori, sarebbe un balsamo per tenerli occupati, lontani dall’ozio e dall’abbandonarsi alle pratiche viziose e a certa sbrigliata voluttá animalesca che sembra oggidí la principale occupazione de’ giovani. Quanto poi alle persone adulte, d’etá matura e giá occupate in uffizi e pesi rematici, crederei che queste dovessero essere piú protettrici d’un tale istituto e piú spettatrici che attrici. Tuttavia credo che gli uomini tutti possano a lor senno cercare divertimento per quelle vie che loro accomodano, né intendo dal canto mio di fare l’Aristarco. Sono poi tenuto a lei d’avermi proposto, e alla sua da me riverita societá d’avermi accettato per despota della privata nobile comica direzione. Chiedo però d’essere dispensato da un tale uffizio. Io sono d’un’indole atta al sorpassare e inclinata alla condiscendenza, e non all’imperare, all’imporre e al volere obbedienza, sicché riuscirei male nella ispezione che mi si vuole generosamente addossare. Oltre a ciò, io vivo a me stesso, e sarei un pesce fuori dall’acqua mia cheta, se entrassi nella dotta e tumultuosa societá ch’Ella mi accenna. Ella mi vede comporre talora delle frivolezze sceniche favorite dalla pubblica bontá, ed è per questo forse ch’Ella s’è formato di me un’idea vantaggiosa in questo argomento. Il mio comporre delle capricciose opere teatrali e la pratica ch’io tengo da molti anni con de’ comici, delle comiche, amici allegri e onorati, non è per me che una distrazione da’ pesi infiniti e molesti che, benché libero, porto volontariamente per la mia numerosa famiglia non molto fortunata. La prego dunque a perdonare al mio rifiuto dell’onore ch’Ella m’ha proccurato e ad iscusarmi presso a’ nobili suoi sozi del mio non accettare.
Non so quanto piacesse la mia ingenua risposta al signor Gratarol. Credo che molti tratti della mia sinceritá non gli andassero a sangue e che molti altri potessero da lui essere giudicati ironici. Nulla ostante egli seguí nella sua adulazione a me noiosa.
— Invero m’immaginava — diss’egli — ch’Ella non accettasse, vedendola di maniere pacifiche; ma almeno può farmi il favore di suggerire persona atta a tale uffizio.
— Crederei — diss’io — persona la piú a proposito il marchese Francesco Albergati, cavaliere dilettante appassionato e intelligente della materia teatrale. Egli è fatto omai abitante di Venezia, e accetterá volentieri l’impegno.
— Lo crede veramente capace? — seguí il Gratarol seriamente, come se si trattasse di cosa di gran rimarco. — Capacissimo — diss’io. — Mi dona dunque la libertá — seguí egli colla stessa ridicola serietá — ch’io proponga a’ membri della compagnia nobile il marchese Albergati come persona suggerita da lei? — Si serva pure — rispos’io quasi sbadigliando, tediato dal lungo dialogo sopra tale inezia.
Egli partí finalmente con un lago di complimenti e mostrandosi contento di me; ed io ringraziandolo con civiltá della sua visita e protestando che gliela averei restituita tosto che avessi potuto, rimasi contento davvero della sua partenza.
Fissato avend’io di non far novitá con la Ricci sino alla quaresima, durai bene della fatica a resistere nella mia fissazione di cautela.
Dopo il trattamento dato dal signor Gratarol, che veniva descritto monarchico, tutti i comici e tutte le comiche della compagnia, scatenati contro la Ricci, la fulminavano con degli equivoci significanti e solo avevano qualche rattenutezza alla mia presenza.
Alcuna però delle attrici, esultante, chiedeva in secreto a me se fossi ancora a segno di conoscere il carattere di quella femmina di cui avevano proccurato in tante forme di avvertirmi invano.
Or mostrava io di non intendere, or correggeva la maldicenza, or volgeva le spalle fingendo collera con le lingue pestifere, e attendeva pur la quaresima.
Una sera, còlto dalla stessa sorella della Ricci, Marianna, in un stanzino del teatro, ella mi disse; — Che le pare, signor conte, della stravagante novitá? — Che novitá stravagante? — diss’io. — Di quella matta di mia sorella — segui la giovine. — Ella fu sempre una matta, di cervello leggero, ambizioso e imprudente. Chi avrebbe detto che dopo cinqu’anni d’assistenza e vera amicizia di lei, si fosse abbandonata a tanta solennitá colla persona del Gratarol?
Mentre andava pensando a una risposta che niente significasse, de’ comici entrati nello stanzino mi levarono d’imbroglio, troncando il discorso.
Essend’io accostumato a dare ogn’anno a un buon numero della compagnia comica un pranzo casalingo verso il fine del carnovale, aveva giá fatto l’invito per un giovedí, per non alterare una consuetudine che facesse fare delle inopportune interpretazioni.
La Ricci, il di lei marito, qualche altra attrice, il Fiorilli, il Zannoni e qualche altro attore furono i miei commensali.
Le lepidezze volavano, ma con mio dispiacere i sali del Fiorilli, facetissimo e ardito, giravano sopra a certi novelli adornamenti che aveva indosso la Ricci, e con delle allusioni che la scorticavano. Ella arrossiva, si avvolgea senza rispondere; gli altri ridevano; ed io cercava indarno di risvegliare discorsi d’altro argomento.
Dopo quel giorno trovai sparse per la compagnia delle disseminazioni franche, esose, sulla sbrigliatezza della povera Ricci, che la infamavano. Giugnevano persino ad affermare che ogni sera, terminata la commedia, ella passava col signor Gratarol al di lui casino e ch’ivi era trattenuta le notti intere.
Queste disseminazioni potevano per avventura esser false malignitá. Non era però che la di lei imprudenza e la pratica di quel signore, famoso in tali materie, e forse meno reo di ciò che lo faceva la pubblica voce, non le avesse tirato addosso un bordello di giudizi e di ciarle, spezialmente nella sua compagnia comica, in cui ella aveva de’ nimici, in cui si ostentava austeritá di costume e in cui non si misuravano parole.
La fama stabilita di effemminato e seduttore in un uomo, anche stabilita sopra a delle false supposizioni, rovina la riputazione nel pubblico giudizio di qualunque saggia, morigerata femmina privata a cui egli s’accosta con una domestica amicizia e con cui prende pratica famigliare. Quella d’una comica come si salva?
Il signor Gratarol, gonfio d’amor proprio e moderno franco filosofo, sará stato ben lunge dal fare questa mia considerazione, che secomlo i suoi sistemi non sarebbe stata che figlia del pregiudizio; e anzi sará stato certo di far dell’onore a quella infelice donna con la sua pratica.
Io doveva credere cosa impossibile che il detto signore non sapesse di dare a me un dispiacere colla sua direzione; pure averei donato a lui un tal dispiacere, se avessi potuto allontanarmi dalla Ricci prima del fine di quel carnovale, senza dar luogo ad un torrente di ciarle maggiori e senza abbandonare interamente a’ flagelli della compagnia una femmina di cui era stato cordiale amico di confidenza e sostegno per il corso di tanti anni, e che finalmente m’era comare.
Non poteva trovar altra scusa per il Gratarol se non che nel credere che la Ricci, ambiziosa e forse innamorata, per coltivare e tener ferma la di lui pratica, gli tenesse occulti tutti gli obblighi e gl’impegni che aveva con me e le proteste e dichiarazioni che ben cento volte le aveva fatte.
Vedeva benissimo che la compagnia comica intera desiderava il totale mio abbandono di quella donna, che ancora m’ingegnava di difendere attendendo la quaresima.
Finalmente i continui insolenti motteggi verso di me e gli esosi pubblici discorsi mi fecero lasciare da un lato la mia metafisica e i miei riguardi, e risolsi di allontanarmi affatto dalla Ricci e di troncare del tutto le mie visite prima che il carnovale terminasse.
Paleso ch’io considerai che il cieco abbandono della Ricci all’amicizia del Gratarol potesse essere un sbalordimento d’un cervello leggero muliebre, cagionato dall’abilitá di quel signore in queste tali materie; e paleso che una debile lusinga ch’ella fosse in grado di scuotersi da un letargo tanto a lei dannoso, di ravvedersi, di poter ancora frenare le lingue e di poter seguitare a giovarle per le oneste vie, mi fece fare un passo prima di abbandonarla a’ fulmini della sua compagnia, passo ch’io sono il primo a condannare di passo falso.
Trovai la di lei sorella Marianna, e le parlai co’ termini seguenti: — Cara Marianna, voi sapete in qual vista si è posta la sorella vostra col signor Gratarol e quali sieno gli obbrobriosi discorsi che corrono sopra lei. Io non sono piú in grado di poterla difendere, e sono in necessitá d’allontanarmi interamente dalla sua pratica e di far conto di non averla mai conosciuta, per non essere involto nelle sporche ciarle che corrono. Avvertitela ch’io tronco da questo punto le mie visite ed ogni relazione con lei, ond’ella possa apparecchiarsi delle difese in faccia alla sua compagnia, la quale ha gli occhi sul mio allontanamento da lei per scatenarsi. Sono certo ch’ella interpreterá al suo solito l’uffizio urbano che le fo giugnere, per una gelosia ch’io sento del Gratarol. La di lei testa non è capace di fare altri raziocini che questo, e la sua stolta ambizione e il suo amor proprio saranno sempre i di lei traditori. Ella dovrebbe sapere ch’io so scusare la gioventú e ch’io non fui geloso giammai delle persone colle quali so ch’ella fece all’amore, ma le quali non potevano mettere a repentaglio né la sua né la mia riputazione nel pubblico con le loro figure; ed ella è in debito di sapere quante volte, sulla di lei pretesa e premura delle mie visite famigliari, le protestai ch’io averei cessato d’esserle amico domestico, tosto ch’ella si mettesse in certa vista con oggetti splendidi e famosi dilettanti di femmine. Il Gratarol ha questa fama. Le ciarle e i libelli bollono; ella non è piú pratica familiare per me. Ditele ch’io la lascio in pienissima libertá, perché non voglio fare né la figura del sciocco né del mezzano, e ch’io le mando questo avviso anticipato, ond’ella possa regolarsi. Assicuratela ch’io non le sarò giammai nimico. — Aggiunsi a questo discorso alcune parole calzanti, relative al Gratarol, né posso negare di aver condannata la di lui azione di galanteria, tanto verso la giovane da me assistita, mia amica di piú di cinqu’anni e comare, mettendola a pericolo di rovinarsi e di soffrire, quanto verso la mia persona, incapace di fare il piú picciolo sgarbo di nessuna natura a chi si sia. M’indusse a questa picciola esagerazione l’esser certo che il signor Gratarol non poteva mostrare che una finta ignoranza sopra ciò ch’era passato tra me e la Ricci per il corso di molti anni. Parlo con ingenuitá.
La giovane Marianna, dopo aver condannata la sorella co’ termini piú risoluti nuovamente, promise di far l’uffizio, aggiungendo che la faccenda sarebbe accomodata.
— Non v’è altro accomodamento — diss’io; — ella cerchi di salvarsi, perch’io non posso piú difenderla e perch’io sono in necessitá di difender me per essermi troppo innoltrato nella di lei amicizia per dabbenaggine.
Ho confessato che questo mio uffizio spedito fu un passo falso. Doveva prevedere che un tale uffizio raccomandato a una giovane non obbligata a intendere il senso delicato del mio pensare, potesse portarlo materialmente come uno sfogo e una minaccia d’un amante debile in gelosia e potesse forse difformarlo con delle alterazioni; e avrei potuto allontanarmi col fatto, senza far precorrere avvisi, non solo dalla Ricci, ma da tutta la comica compagnia che aveva sostenuta per tanti anni e ch’era innocente in questo argomento, per non essere involto nelle sporche dicerie. Ma ho anche confessata una mia debile lusinga di poter scuotere da un letargo con un tale annunzio la giovine, di porre in soggezione le lingue e, rimettendola in sul diritto cammino, di poter ammorzare un fermento di ciarle infamatrici e di poter seguire ad essere utile a lei e alla sua famiglia. Si vedrá il frutto del mio passo falso nel seguente capitolo.